8 dicembre 2019
LA RIGENERAZIONE URBANA NON PUÒ ESSERE SOLO UN “MOOD”
Vecchi strumenti per nuovi scenari
8 dicembre 2019
Vecchi strumenti per nuovi scenari
La regione Lombardia lo scorso 12 novembre ha approvato una legge di carattere urbanistico intitolata “Misure di semplificazione e incentivazione per la rigenerazione urbana e territoriale, nonché per il recupero del patrimonio edilizio esistente. Modifiche e integrazioni alla legge regionale 11 marzo 2005, n. 12 e ad altre leggi regionali”. Rigenerazione urbana significa re – immettere nel ciclo produttivo economico e sociale parti di città (o di territorio) obsolete, riducendone l’impatto ambientale.
Le parti obsolete sono quelle i cui caratteri non rispondono più, in modo efficace, alle mutate esigenze della città. Le condizioni di obsolescenza sono diversissime, hanno origini e cause diverse e tempi di permanenza differenti. Per esempio le ricorrenti crisi del settore manifatturiero, a partire dagli anni ’70 del 900, hanno lasciato vaste aree industriali dismesse che sono rimaste inutilizzate per decenni, mentre le città si espandevano sui suoli agricoli. Si pensi al caso dell’acciaieria Falck a Sesto San Giovanni, che ha spento l’ultimo forno nel 1995, le cui aree, pari a circa un terzo del territorio urbanizzato della città, sono per la maggior parte ancora inutilizzate.
La rigenerazione urbana dunque non è solo una questione che riguarda la disciplina urbanistica, è soprattutto una strategia necessaria per riattivare il ciclo edilizio, immettendovi innovazione tecnica e un’occasione cruciale per ripensare al ruolo della rendita urbana nell’economia nazionale. Dunque una questione di interesse generale e nazionale, che assume estrema rilevanza nelle regioni di antica industrializzazione.
L’ amministrazione pubblica nell’ affrontare la questione, nel nostro caso la regione Lombardia, dovrebbe analizzare il fenomeno, capire come si evolve il contesto (i fabbisogni della società, le economie locali, il mercato immobiliare, gli aspetti ambientali, ecc.) decidere gli obbiettivi prioritari, costruire un quadro normativo coerente per indirizzare i processi spontanei, individuare i punti di crisi che richiedono un intervento pubblico diretto o comunque un sostegno, perché non risolvibili dal mercato ed infine formulare gli strumenti amministrativi ed economici più adatti.
Nella legge regionale sulla rigenerazione urbana, appena approvata è difficile intravvedere questo percorso logico (oltre tutto il modo di legiferare per continue modifiche e integrazioni alle leggi vigenti, rende difficilissima la comprensione dei testi).
La legge per la rigenerazione urbana è concettualmente articolata in due parti.
La prima, a mio parere positiva, sancisce il principio che la pianificazione urbanistica deve occuparsi prioritariamente della città costruita e contenerne l’espansione secondo i principi (ancora da sistematizzare) della rigenerazione urbana. Dispone quindi che i comuni individuino nei loro strumenti urbanistici gli ambiti di rigenerazione; prassi che molti comuni stanno già applicando, indotti dalle condizioni reali dei loro territori. La legge poi affida ai Piani Integrati di Intervento l’attuazione dei programmi di rigenerazione urbana.
La seconda parte della legge stabilisce gli incentivi alla rigenerazione. In questa parte, che riguarda l’intervento pubblico diretto, l’obsolescenza urbana è trattata come un fenomeno omogeneamente diffuso in un territorio indifferenziato. La legge non distingue le diversissime condizioni urbanistiche e territoriali e le differenti condizioni economiche e di mercato che caratterizzano il territorio lombardo; non individua priorità e conseguentemente predispone gli stessi strumenti di intervento per tutto il territorio: dispone infatti che gli interventi che riguardano il patrimonio edilizio esistente e che presentano caratteri “rigenerativi”, non solo in città ma anche nelle aree agricole, godano comunque di un medesimo incremento volumetrico del 20% (rispetto alle norme comunali vigenti) e una riduzione del contributo di costruzione del 50% (i comuni possono modulare tali condizioni generali in relazione a specifiche situazioni). Considerando che le due recenti leggi urbanistiche regionali, la 31/2014 sulla riduzione del consumo di suolo e quella appena approvata sulla rigenerazione, hanno come obbiettivo di ridurre al massimo l’attività edilizia nelle aree di espansione, ne consegue che quasi tutti i futuri interventi riguarderanno la città costruita, avranno caratteristiche “rigenerative” nel rispetto di norme edilizie già vigenti e godranno pertanto di tali “agevolazioni”, che si tratti del recupero di un edificio industriale in via Tortona a Milano, o di una fabbrica metallurgica dismessa in Val Trompia.
Si potrebbe obbiettare che comunque gli incentivi della legge sono utili a riattivare l’attività edilizia diffusa. Non è così. L’incremento volumetrico è uno strumento obsoleto, ovvero adatto a condizioni di mercato pre crisi 2008. Spesso le volumetrie esistenti sono sovrabbondanti, ovvero eccessive per progetti di qualità ed eccessive in relazione alla domanda di mercato. In altri contesti potrebbe invece essere utile un incremento più consistente. Lo strumento del premio volumetrico, se necessario, deve essere deciso di volta in volta e quindi dai comuni. D’altra parte lo sconto sul contributo di costruzione previsto dalla legge, nelle situazioni marginali (fabbrica dismessa in Val Trompia) può essere assolutamente insufficiente a rendere economicamente vantaggioso l’intervento.
In altri casi (ad esempio a Milano) è un incentivo superfluo e diventa un puro regalo alla rendita. Anche in questo caso il carico degli oneri di urbanizzazione e delle contropartite pubbliche o per contro le agevolazioni e gli incentivi, vanno decisi caso per caso e quindi ancora una volta dai comuni che devono avere strumenti di analisi economica adeguati.
Il costo di questa legge ricade dunque interamente sui comuni lombardi in termini di mancati introiti dai contributi di costruzione (oneri di urbanizzazione, aree a servizi e altri contributi) mancati introiti che potrebbero ammontare a centinaia di milioni di euro (per l’attuazione della legge la Regione ha messo a bilancio un solo milione).
Si riduce così la pressione fiscale in modo indifferenziato e “a pioggia” ma nel contempo si riducono investimenti pubblici capaci di sostenere la crescita, a tutto vantaggio della rendita laddove questa si manifesta, ovvero nelle posizioni di alto valore urbano e territoriale.
La legge infine non affida alcun ruolo sostanziale alle Province, alla Città metropolitana e neppure all’ intervento diretto della Regione. Eppure il fenomeno dell’obsolescenza si presenta anche a scala territoriale con episodi di dimensioni tali che i singoli comuni non possono affrontare. Si pensi alle dismissioni industriali lungo l’asse del Sempione o in certe valli prealpine o le grandi aree industriali dismesse in centri urbani medi o piccoli. Per la Città Metropolitana di Milano è previsto un fondo per sviluppare progetti e attuare interventi di scala sovra comunale, finanziato però dai comuni che vi aderiscono volontariamente.
Eppure la stessa Regione nella Variante al Piano Territoriale Regionale (PTR) del 2018, in adeguamento alla legge 31 (contenimento del consumo di suolo) ha individuato “Areali di programmazione territoriale della rigenerazione” ovvero territori ove si concentrano le aree industriali dismesse e le aree da bonificare, intese come componenti determinanti dell’obsolescenza territoriale (1). Il Piano prevedrebbe di concentrare in tali Areali l’azione diretta di Province, Città Metropolitana e Regione. Ma di questa scelta nella legge non c’è traccia, anzi sembra contraddirla. Di più la legge rischia di contraddire scelte di molti PGT che hanno già normato l’azione pubblica a sostegno della rigenerazione urbana, come nel caso eclatante del nuovo PGT di Milano.
Cosa avrebbe dovuto fare la legge?
Dare ai comuni non solo il compito di pianificare gli ambiti di rigenerazione, ma anche di individuare le priorità di intervento e di decidere gli incentivi o le contropartite in considerazione delle diversissime condizioni urbanistiche e di mercato.
Sostenere e finanziare le proposte comunali che rispondono alle priorità indicate dalla Regione.
Stabilire le priorità a scala territoriale (per esempio: grandi aree dismesse da bonificare; vaste periferie socialmente problematiche; paesaggi destrutturati dalle infrastrutture e ambienti ecologicamente compromessi, ecc).
Affidare alle Province, alla Città Metropolitana di Milano e alla Regione stessa la pianificazione territoriale degli “Areali di rigenerazione” e sostenere finanziariamente i programmi di intervento a grande scala, considerati prioritari.
In conclusione. Il centro destra ha una lunga esperienza di governo della Lombardia, la regione che traina lo sviluppo della Nazione. Eppure di fronte ad un fenomeno epocale, l’obsolescenza urbana e territoriale, la legge voluta dalla maggioranza fa un passo indietro e propone vecchi strumenti, fondati su un’analisi superficiale del fenomeno che si vuole governare, pensando che la rendita urbana si manifesti ancora nella dimensione e nelle forme del passato. La visione strategica che era delineata nel PTR si perde nella legge. La capacità di progettare il futuro è così affidata più alla società lombarda che alla classe politica dirigente.
Ugo Targetti
(1) Nota
Dati sulla distribuzione e concentrazione delle aree industriali dismesse e delle aree da bonificare come componenti determinanti dell’obsolescenza territoriale, tratti dagli studi per la Variante al PTR del 2018.
“Le aree da recuperare in tutta la Regione, secondo le banche dati regionali, assommano a 4.824 ha e sono presenti in 549 Comuni, poco più di un terzo dei 1.530 Comuni lombardi. La popolazione interessata è di oltre 7.192.000 abitanti, pari a quasi il 72% della popolazione lombarda. La superficie territoriale dei Comuni con aree da recuperare rappresenta quasi il 42% della superficie della Regione, ma circa il 60% del suolo urbanizzato.
L’incidenza delle aree da recuperare rispetto al suolo urbanizzato dei Comuni interessati è mediamente del 2,5% (i dati si riferiscono a 531 Comuni su 549, per i quali sono disponibili i dati del PGT; la variazione dell’incidenza su dati aggregati non è significativa).
Dunque il fenomeno della dismissione è diffuso sul territorio regionale, coinvolge una buona parte della popolazione, non è mediamente rilevante rispetto alla struttura degli insediamenti.
Tuttavia se si confronta la superficie delle aree da recuperare con la superficie delle aree urbanizzabili sulla base dei PGT vigenti riferite ai 531 Comuni, la dimensione del fenomeno appare assai più significativa: infatti le aree da recuperare che hanno una superficie complessiva di 4.707 ha sono il 31,4 % dei 14.971 che i PGT di quei Comuni prevedono di urbanizzare. Dunque una quota significativa delle previsioni insediative potrebbe teoricamente essere trasferita nelle aree da recuperare. ……………….
La distribuzione del fenomeno però non è omogenea e dunque il Piano non può prescindere dall’incidenza del fenomeno e dalle peculiarità territoriali di concentrazione insediativa, disponibilità di suolo, ecc.”
………….. Volendo indagare il fenomeno nei territori più densamente abitati e urbanizzati ci si può riferire ai Comuni che hanno meno del 50% di suolo residuo (non urbanizzato ndr); sono138 su 531 con 4.102.344 abitanti (pari al 41% della popolazione regionale) insediati sul 25 % del suolo urbanizzato regionale. In questi Comuni si concentrano1.996 ha da recuperare pari al 42% del totale delle aree da recuperare; se si confronta la superficie totale delle aree da recuperare nei 138 Comuni (1.996 ha) con il totale delle aree libere edificabili secondo i PGT degli stessi Comuni (4.805 ha), il rapporto è pari al 41%, contro una media regionale del 31,4%.
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