16 novembre 2019

COSTRUIRE SENZA VINCOLI? LA RENDITA SOPRAVVIVE

Una risposta a Marco Ponti e Francesco Ramella


L’assunto di Ponti e di Ramella, confortato del resto da altri autorevoli autori, è il seguente. I prezzi sono determinati dalla domanda e dall’offerta. Se aumento l’offerta i prezzi scenderanno. Se elimino i vincoli urbanistici, la produzione aumenterà fino a che i prezzi delle case scenderanno e coincideranno con i costi di produzione, azzerando la rendita, con vantaggio sociale e dei ceti meno abbienti.

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In realtà non è proprio così perché la città e il territorio non sono omogenei, non sono spazi indifferenziati. La rendita (rendita urbana differenziale) è determinata soprattutto dalle differenze di posizione e non è eliminabile perché è connessa alle ineliminabili differenze di qualità delle diverse posizioni degli immobili (terreni o edifici) nella città: elevata accessibilità (presenza del trasporto pubblico o buone strade), prossimità ai servizi, qualità estetica e sociale del contesto urbano: centri storici, parchi ecc.. (La rendita si determina anche per le differenze di qualità delle diverse posizioni territoriali: punti di visuale sui paesaggi, prossimità alle coste di mari, fiumi e laghi, presenza di ambiti di elevata naturalità, ecc., ma limitiamo il ragionamento alla città).

La rendita (assoluta) si determina anche quando un terreno è adatto all’edificazione per la semplice presenza della comunità: le aree libere al confine degli insediamenti umani (dal borgo alla città) hanno una sorta di edificabilità “naturale” e acquistano un valore maggiore delle aree agricole lontane dalla città.

I vincoli urbanistici si sovrappongono a tali condizioni “naturali” determinate dalla posizione, consentendo o impedendo l’edificazione o limitando la capacità edificatoria dei suoli; incidono quindi sulla rendita che si forma su singole posizioni, ma di fatto non incidono globalmente sull’offerta. A riprova ne sia che raramente la capacità insediativa di un Piano urbanistico è inferiore alla domanda: quasi mai alla scadenza formale dei piani (dieci, quindici anni) le previsioni di sviluppo sono esaurite: cioè l’offerta potenziale è superiore alla domanda. Eppure la rendita urbana si forma.

E’ il modello di città, o del sistema insediativo metropolitano, che determina globalmente la formazione della rendita. Se le qualità urbane (che non sono solo l’accessibilità), crescono al centro della città (o dell’area metropolitana), la rendita differenziale complessiva crescerà al centro, indipendentemente dai vincoli. Se invece si riequilibra il complesso dei valori urbani (per quanto possibile) si avrà una distribuzione più omogenea dei prezzi e un livellamento della rendita a livelli più bassi.

Alcun scenari

Immaginiamo di mantenere un modello di totale concentrazione dei servizi e dell’offerta di lavoro a Milano: si possono liberalizzare totalmente i vincoli nei comuni dell’area metropolitana, anche nelle posizioni servite dal trasporto pubblico, ma la piramide dei prezzi non cambierà.

Se d’altra parte si liberalizzano i vincoli al centro i valori degli immobili in posizioni privilegiate vedranno aumentare la loro rendita differenziale; infatti è vero che l’aumento dell’offerta dovuta all’eliminazione dei vincoli potrebbe ridurre i valori di mercato dei beni finali (prezzo al mq di edificio costruito) ma la rendita complessiva non diminuirà perché le aree (libere o costruite non fa differenza) in posizioni privilegiate e senza vincoli di cubatura, aumenteranno ulteriormente di valore rispetto alle posizioni meno appetibili, in quanto il loro valore sul mercato, dipende sia dalla posizione che dalle possibilità edificatorie. A Milano, negli ultimi anni, i vincoli di piano sono stati allentati (per norma o per specifiche varianti) e parallelamente i prezzi e quindi i livelli di rendita sono aumentati, mentre nell’hinterland i prezzi sono fermi, indipendentemente dalle diverse condizioni normative dei comuni.

Immaginiamo di abrogare la legge urbanistica. L’eliminazione generalizzata dei vincoli di edificabilità, (si può costruire ovunque, quanto si vuole) avrà l’effetto di distribuire la rendita tra i terreni “naturalmente edificabili” ma non di eliminare la rendita che si formerà con un gradiente determinato dalla prossimità agli abitati. Questo scenario in Italia si è verificato, in parte per effetto dell’abusivismo di massa, in parte per effetto di pianificazioni formalmente legali ma sostanzialmente inefficaci.

Per esempio a Roma, alla formazione dell’ultimo PRG, si contavano 400.000 abitanti in quartieri abusivi; altre città del Meridione presentano situazioni analoghe. D’altra parte le campagne venete (ma non solo venete) sono disseminate di edifici (case e capannoni) regolarmente autorizzati dai Piani.

In questi casi la rendita si è effettivamente distribuita su molti proprietari e talvolta il prezzo dei beni finali (le case) si è avvicinato al costo di costruzione, ma i costi della collettività sono esplosi in termini di degrado dell’ambiente e del paesaggio e di costi di urbanizzazione che sono poi ricaduti sui comuni. I comuni hanno così dovuto impiegare le risorse pubbliche (generalmente a debito) per sanare situazioni igienicamente e socialmente insostenibili e ridurre i margini di manovra del bilancio a favore dei cittadini meno abbienti. Un costo pagato dalla collettività e incamerato dalla rendita, per quanto bassa e diffusa. (A tal proposito vedi gli studi di R. Camagni e altri sui costi dell’urbanizzazione diffusa in Veneto).

Dunque al di là dei vincoli urbanistici esistono due tipi di vincoli “oggettivi”: la tutela del paesaggio, della natura e dell’ambiente, che sono beni comuni, e i vincoli del bilancio pubblico.

Dunque che fare? E’ utile operare sui vincoli urbanistici ovvero sugli indici di edificabilità del Piano regolatore per agire sulla rendita e quindi sui prezzi e ridurre le disuguaglianze in termini di accesso ai beni urbani?

Penso di no per quanto ho sin qui detto, ma anche perché i limiti di edificabilità devono essere decisi non in relazione agli effetti sulla rendita, ma con criteri funzionali (ottimizzazione della rete dei trasporti – è bene aumentare gli indici in presenza del trasporto pubblico – capacità delle urbanizzazioni, dotazione esistente e programmata dei servizi, ecc.) e criteri estetici (la densità edilizia è una componente essenziale della forma urbana, condiziona il rapporto tra spazi liberi ed edificati e la percezione tridimensionale dello spazio urbano). Efficienza della città e qualità della forma urbana sono beni comuni irrinunciabili.

Stabilita l’edificabilità dei suoli in ragione del progetto di città o di territorio, la collettività (il comune) può e deve operare perché la rendita urbana, che comunque si forma in quanto frutto dell’azione e della semplice presenza della collettività, non sia totalmente privatizzata, ma venga redistribuita tra proprietari / operatori immobiliari e collettività. La collettività potrà utilizzare la sua quota di rendita per costruire la città pubblica, con effetti redistributivi generali o per immettere sul mercato case e servizi a prezzi inferiori ai prezzi di mercato (edilizia pubblica o sociale) con effetti redistributivi verso le classi di reddito più basse. Se la quota di edilizia sociale è consistente può avere anche effetti di calmiere sul mercato libero.

I comuni hanno alcuni strumenti per redistribuire i valori di rendita; la contrattazione sugli interventi maggiori regolata dagli strumenti urbanistici; il contributo di costruzione (oneri di urbanizzazione); l’articolo16 del DPR 380 (che consente il recupero della metà del maggior valore determinato dalle varianti allo strumento urbanistico) ecc. In teoria si può ridurre la rendita (non eliminarla) anche con l’esproprio delle aree edificabili, utilizzato in larga misura da molti comuni dagli anni ’60 fino ai primi anni ’90 (Piani PEEP della legge 167/62, teoricamente ancora vigente ma in pratica inapplicabile). Purtroppo manca ai comuni, in Italia, la leva fiscale le cui regole sono stabilite esclusivamente dallo Stato.

Vale dunque il principio che la pianificazione deve individuare i valori collettivi irrinunciabili: (efficienza degli insediamenti, tutela dell’ambiente e qualità del paesaggio) e dare le regole di governo delle trasformazioni; il mercato deve produrre ricchezza e l’amministrazione pubblica deve redistribuire la ricchezza. Il mercato del resto opera meglio entro regole certe.

1°Corollario

Tra i vincoli che Ponti ipotizza di eliminare per aumentare l’offerta ci sarebbero quelli tesi a ridurre il consumo di suolo. Condivido con Ponti la considerazione che sul tema si è formata una retorica che nasconde la grande varietà di situazioni reali. In Italia il suolo urbanizzato è il 7 / 8 % del territorio nazionale. Non sarebbe di per sé un dato allarmante. Cambia la valutazione se si considera che la pianura è solo il 23% del territorio nazionale e ospita il 48,7 % della popolazione; se si considera per esempio, che nei territori dei comuni costieri, pari al 14,3% del territorio nazionale si concentra il 28,4% della popolazione e che nelle aree litoranee della Campania si ha una densità di 1.246 ab/kmq contro una media nazionale delle aree non litoranee di 168 ab/kmq.

Ma il dato diventa allarmante laddove il suolo urbanizzato raggiunge valori del 30, 40 o anche del 50% del territorio comunale, come in vaste parti delle aree metropolitane, proprio laddove è più alta la domanda di edificazione. In presenza di tali valori si determinano problemi ambientali e di degrado del paesaggio; cioè si intacca l’interesse pubblico.

2° Corollario

Nella ricerca dell’International Housing Affordability Survey di Demographia, citata da Francesco Ramella, Pittsburgh in Pennsylvania risulta la città con minore incidenza delle rendita sui prezzi di mercato delle abitazioni e la ricerca evidenzierebbe una correlazione tra bassa incidenza della rendita e liberalizzazione dei vincoli urbanistici.

Sono andato su Google a vedere Pittsburgh, città posta su due fiumi. Sull’istmo, alla convergenza dei fiumi (dove nel 1758 gli inglesi costruirono Fort Pitt, in onore del primo ministro William Pitt) si elevano i grattacieli di Downtown, serviti da una superstrada. Le coste dei fiumi, elementi potenziali di qualità differenziale, sono invece quasi interamente occupate da industrie. La residenza è diffusa su un vasto territorio in modo omogeneo, in quartieri pianificati di case basse ad alta densità (una attaccata all’altra, certo non a 10 metri come imporrebbe la legge nazionale in Italia) secondo un modello ripetitivo. Un modello che non determina rendite differenziali. E’ un giudizio necessariamente superficiale, ma ho l’impressione che i bassi livelli di rendita siano determinati più dal modello insediativo sostanzialmente indifferenziato, che dalla liberalizzazione dei vincoli.

Ugo Targetti



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  1. Marco Guido PontiParliamo due linguaggi diversi, pur avendo io anche una laurea in urbanistica, ragiono da economista. Ovvio che la rendita in realtà non sparisce, ma può radicalmente ridursi, e quello che socialmente interessa è il fatto che, se si costruisce di più i prezzi delle case per gli utenti finali diminuiscono, anche se la rendita totale può crescere (si azzera infatti totalmente solo se in ogni circostanza i prezzi si schiacciano sui costi, cioè nello schema teorico proposto per ragionare). Trovo invece un pò imbarazzante riferirsi, per i fenomeno analizzato scientificamente su 90 città per 15 anni, ad una mappa vista su Google.Forse quei numeri hanno un valore euristico più solido)
    20 novembre 2019 • 12:40Rispondi
  2. ugo targettiCaro Ponti, nel mio articolo sostengo: 1. che i fatti empirici verificabili, che meglio conosco, smentirebbero la teoria secondo la quale ci sarebbe un rapporto diretto e generale tra liberalizzazione dei vincoli e riduzione dei prezzi e quindi della rendita. Tale effetto può verificarsi sporadicamente ma la liberalizzazione non inciderebbe sul fenomeno generale. Insomma, come sostengono del resto eminenti studiosi, il fenomeno della rendita non è riducibile al semplice schema dei prezzi determinati dalla domanda e dall’ offerta. 2 che ci sono evidenze significative di quanto sostengo non solo nella nostra realtà. Per esempio non credo che a Manhattan, dove mi pare non ci siano particolari limiti d’altezza per gli edifici, i prezzi al mq si siano avvicinati a quelli del Queens (non ho dati, vado per intuizione). 3. che comunque anche se la liberalizzazione dei vincoli avesse effetti generali sulla riduzione dei prezzi e della rendita, i costi collettivi in termini di qualità della città e del territorio non sarebbero compensati dai vantaggi. 4. Last but not least che ci sono altri modi di riportare la rendita, almeno in parte, all’ interesse collettivo. Quanto al caso Pittsburgh, riportato nel Corollario, è evidente che non avevo intenzione di contestare la teoria di una ricerca scientifica che del resto non conosco. Mosso da curiosità ho voluto solo prendere il caso limite citato da Ramella e valutarlo dal mio punto di vista, in modo dichiaratamente superficiale: ho trovato qualche riscontro.
    20 novembre 2019 • 19:01Rispondi
  3. valentino ballabioNon sono né un economista né un urbanista ma a intuito mi sembra che la ragione della disputa sia riconducibile alla seguente domanda: la terra è una merce come le altre sottoposte alla pura legge del mercato (domanda e offerta, mano invisibile, riproducibilità pressoché all'infinito, moneta cattiva che scaccia quella buona, ecc.) o come gli altri elementi empedoclei (aria, acqua, energia) è un bene comune originario, un vitale valore d'uso prima che di scambio?
    23 novembre 2019 • 13:50Rispondi
    • Luca Beltrami GadolaValentino! Buona la seconda!
      23 novembre 2019 • 19:24
  4. Marco PontiPer Targetti: forse a numeri bisogna rispondere con numeri, non con convinzioni, smentendo quella ricerca, che per altro è la conferma empirica di un principio economico banale. Per Ballabio: occorrerebbe espropriare l’intero patrimonio immobiliare, con il conseguente collasso del sistema bancario ecc. Large programme, direbbe De Gaulle....e di modesto successo storico, mi sembra.
    24 novembre 2019 • 09:56Rispondi
  5. valentino ballabioNessun esproprio generalizzato! Piuttosto la distinzione tra proprietà privata dei suoli, che rimane tale, e jus aedificandi rimesso in capo ai pubblici poteri. Principio cardine della legge Bucalossi del 1977 (in coerenza col Titolo III della Costituzione), firmata da un ministro già sindaco di Milano ed appartenente al partito di La Malfa e Spadolini, non di Lenin e Troski.
    23 novembre 2020 • 14:46Rispondi
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