16 novembre 2019
MILANO DIVORA SE STESSA
Esempi e riflessioni su una città che cancella il suo passato
16 novembre 2019
Esempi e riflessioni su una città che cancella il suo passato
Storicamente Milano ha sempre avuto poco riguardo per la conservazione della sua memoria. Basta citare alcuni esempi: della città imperiale romana, che contava monumenti grandiosi, resta poco più di due torri, una manciata di chiese, sedici colonne, qualche mosaico, qualche muro di fondazione; per fare il Teatro alla Scala è stata demolita una bella chiesa gotica, Santa Maria della Scala; per fare la Pinacoteca di Brera è stata demolita in gran parte un’altra bella chiesa gotica, Santa Maria di Brera; per fare la sede dell’Unione del Commercio è stato massacrato un capolavoro del liberty, Palazzo Castiglioni; per fare un quartiere di case d’abitazione è stato demolito il Lazzaretto e si è cancellata per sempre la vista sul Resegone; per fare corso Europa è stato annientato uno dei pochi frammenti del centro storico risparmiati dalle bombe del ’43; e via di questo passo.
Mi si potrà obiettare che questo processo di costante demolizione e ricostruzione accomuna Milano alla maggioranza delle città del mondo, e che si tratta di un processo inevitabile e anche positivo, perché testimonia la vitalità di una città e spesso gli edifici nuovi sono di qualità pari se non superiore ai vecchi che hanno sostituito. Solo le città morte – o peggio, mummificate – restano sempre uguali e conservano tutto.
Vero, ma fino a un certo punto: le città che amiamo in Italia e in Europa hanno spesso trovato un equilibrio tra conservazione e trasformazione. Penso non solo alle più celebri città d’arte, ma anche a centri “minori” come Genova, Torino, Montpellier, Lione, Zurigo.
La “fisiologica” tendenza di Milano alla continua ricostruzione e trasformazione si è accentuata dopo l’Unità e ha coinciso con la sua affermazione come capitale finanziaria e industriale d’Italia. E ha subito ancora brusche accelerazioni tra le due guerre e nel secondo dopoguerra, complici (ma fino a un certo punto…) i bombardamenti del 1943.
Negli anni ’90 brusca battuta d’arresto, legata a Tangentopoli. E poi rilancio “alla grande”, prima con i nuovi quartieri di grattacieli e poi con Expo 2015 e le sue conseguenze.
Volendo sintetizzare il pensiero dominante a Milano: il nuovo è sempre meglio del vecchio, il vecchio si conserva e si valorizza solo se è utile e produce reddito.
Sul Corriere di sabato 16 novembre è uscita una lucida lettera di Fulvio Irace che denuncia i progetti di trasformazione di due edifici progettati da Gio Ponti – l’ex sede di Savoia Assicurazioni in Viale Famagosta e l’ex sede delle Assicurazioni RAS (ora Allianz) in Corso Italia -, proprio nel momento in cui la figura di Ponti ha raggiunto la massima fama mondiale e ci si appresta a inaugurare una grande mostra monografica al MAXXI di Roma.
Ma è solo la punta dell’iceberg. Trasformazioni insidiose e striscianti interessano anche architetture più antiche e apparentemente intangibili, addirittura vincolate dalla Soprintendenza.
Penso alla Casa dei Morigi, storica casa occupata, che fino a pochi anni fa aveva conservato miracolosamente intatte le stratificazioni di secoli: è stata venduta dal Comune a privati, e in un batter d’occhio è diventata un condominio di lusso levigato e pretenzioso, dove chissà come (l’edificio è, almeno in teoria, vincolatissimo) sono spariti infissi e intonaci antichi e si sono salvati giusto la storica Taverna Moriggi (ormai ristorante di lusso), le strutture, i vani scala e le sale di rappresentanza del piano nobile. Il resto, tabula rasa.
Altro caso, recentissimo, quello del Camparino in Galleria. In generale niente da eccepire: hanno ripulito decorazioni e arredi storici e creato nuovi spazi nei locali attigui e giù in cantina. Peccato che la voglia di nuovo non si sia arrestata, come avrebbe dovuto, di fronte agli infissi di alluminio anni ’50, non originali – certo – ma ormai tipici e non privi di qualità estetica e di un certo fascino d’antan, lo stesso delle rimpiante pubblicità sul Carminati. E invece sono stati rimpiazzati da banali infissi in ferro e vetro, magari anche eleganti ma privi di qualunque carattere distintivo, identici a quelli di decine se non centinaia di altri negozi del centro.
Qual è il senso di un’operazione del genere? Puramente estetico direi, “dare una verniciata di nuovo”, perché dal punto di vista delle prestazioni acustiche e termiche l’infisso nuovo è identico al vecchio. E mostra pure piccoli difetti esecutivi, inaccettabili in un luogo che è una delle vetrine della città.
A questo punto mi sembra opportuno tentare qualche riflessione generale.
È evidente che non si possano bloccare le trasformazioni, ma rispetto al passato, quando uno stile ne sostituiva un altro ed era cosa normale (pensiamo alla barocchizzazione delle chiese nel Sei-Settecento e alla loro de-barocchizzazione tra Otto e Novecento), oggi possediamo (dovremmo possedere?) la maturità per riconoscere la qualità delle architetture e dei manufatti di qualunque epoca e ambito sociale, prescindendo da considerazioni di gusto personale. Oggi una persona di media cultura ha gli strumenti per apprezzare il romanico, il barocco, l’eclettismo, il liberty, l’architettura moderna e quella contemporanea. È già una grande conquista.
Nell’intervenire sugli edifici e sugli ambienti del passato, occorre la capacità di distinguere ciò che ha più valore (estetico, storico, ecc.) da ciò che ne ha meno e che quindi si può sostituire o, se necessario, integrare aggiungendo con attenzione e sensibilità elementi contemporanei e così un nuovo strato: quello del nostro tempo.
In questo sono stati maestri alcuni nostri architetti del secondo dopoguerra: Albini, Scarpa, Gardella, i BBPR. Non mancano esempi più recenti, come Cascina Cuccagna, restaurata a cura di Marco Dezzi Bardeschi, e la nuova sede della Fondazione Prada, dove l’archistar Rem Koolhaas ha saputo alternare e accostare vecchio e nuovo con esiti talvolta discutibili ma di notevole interesse.
Dobbiamo metterci in testa che, distruggendo e sfigurando le cose belle e preziose ereditate dal passato, le perdiamo per sempre e le sottraiamo alle future generazioni, che dovranno accontentarsi delle foto della “Milano che fu”, così come facciamo noi quando rimpiangiamo la distruzione del Lazzaretto o la copertura dei Navigli.
In una città come Milano, che ha condotto una sistematica battaglia per cancellare il suo centro storico, quelle poche testimonianze superstiti meritano a maggior ragione di essere conservate con tutti i crismi. E invece ora, dopo aver distrutto la città antica, ci accingiamo a massacrare il patrimonio altrettanto meritevole ma assai più fragile (perché generalmente non protetto da vincoli e poco noto al grande pubblico) dell’architettura moderna.
Milano è sempre più gettonata come meta dei viaggiatori internazionali: se vogliamo un turismo di qualità, e non solo “mordi e fuggi”, dobbiamo stare molto attenti alla salvaguardia del nostro patrimonio. Una volta perduto non torna più.
Pierfrancesco Sacerdoti
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