17 ottobre 2019

SAVALL E BARBABLU’

Due nuovi concerti: Conservatorio e Auditorium


Fin da quelle prime quattro note lapidarie e scultoree1 che abbiamo sentito migliaia di volte, e che sembrano una perentoria richiesta di attenzione e di concentrazione (quel sol-sol-sol-mib in fortissimo), ci si è accorti che la Quinta Sinfonia di Beethoven diretta dal catalano Jordi Savall non era quella che abbiamo da sempre in testa: il suono diverso, il senso di quell’«Allerta» cambiato, la corona sull’ultima nota che ha un altro sapore. Il grande Furtwängler ebbe a dire, di questo incipit, che “è così insolito da apparire unico in tutta la storia della musica. Non ci troviamo di fronte a un tema, nel senso corrente della parola, ma a quattro battute che svolgono il ruolo di un’epigrafe, di un titolo a lettere cubitali” e – nelle mani di Savall – già il titolo diceva di prepararsi a qualcosa di nuovo e di diverso.

viola-1

È accaduto l’altra sera al Conservatorio dove, ospite della Società del Quartetto, l’orchestra Le Concert des Nations creata e diretta da Savall ha portato a Milano un pezzo molto significativo del suo progetto europeo Accademia Beethoven 250 (l’anno prossimo si celebra il 250mo anniversario della nascita di B. e dunque prepariamoci ad una meravigliosa «abbuffata» della sua musica!) ed ha eseguito le due Sinfonie centrali, vale a dire la Terza in mib maggiore (l’Eroica) e la Quinta in do minore, che spesso vengono interpretate come le epopee, rispettivamente, dell’individuo e dell’umanità.

La Concert des Nations, che compie quest’anno trent’anni, è – se non la prima in assoluto – una delle prime orchestre realmente internazionali, costituita da una cinquantina di musicisti, specializzati in strumenti d’epoca, provenienti da Francia, Spagna, Italia, Germania, Belgio, Portogallo, Austria, Olanda, Argentina, ecc.; e non a caso l’orchestra ha sede nel cuore dell’Europa, in un luogo magico come la Saline Royale di Arc-et-Senans, nella foresta di La Chaux presso Besançon in Francia. La Saline Royale merita una visita: è una sorta di città ideale voluta da Luigi XVI nella seconda metà del settecento, disegnata dal grande architetto Claude-Nicolas Ledoux, e solo in parte realizzata a causa della sopravvenuta Rivoluzione.

Venerdì sera ho potuto ascoltare solo la Quinta ma mi è bastato per capire come Savall non si limiti a dirigere l’orchestra ma piuttosto racconta la musica, e la racconta – all’orchestra e al pubblico – non tanto per come è scritta quanto per come vuole che la si ascolti, per ciò ch’egli vi scopre e che vuol comunicare, dosando i volumi e i pesi come può fare solo chi dirige la “propria” orchestra, e può immedesimarsi totalmente in essa.

Così succede che l’Andante con moto del secondo movimento, quel canto pieno di nostalgia e di pace che segue agli impeti del primo Allegro con brio, provochi una profonda emozione, e altrettanto accada con quella sorta di tumultuoso trio in do maggiore che compare improvvisamente al centro dell’Allegro del terzo movimento; ma il capolavoro della Quinta di cui stiamo parlando è nella minuziosa preparazione dell’attacco dell’ultimo movimento, quando una ardita progressione degli archi accompagnati dal solo rullo del timpano – cui alla fine si aggiunge un unico accordo in crescendo di legni e ottoni – precede lo scoppio della fanfara, in fortissimo, che farà da Leitmotiv al finale della Sinfonia.

La Quinta è in do minore – la tonalità drammatica e introspettiva che Beethoven sceglierà anche per l’ultima, meravigliosa sonata per pianoforte, opera 111 – e il suono degli strumenti d’epoca impiegati dal Concert des Nations contribuisce non poco a toglierle l’imperiosità e la potenza che l’orchestra moderna ineluttabilmente le conferisce a beneficio di una intimità e di una morbidezza che la fanno ascoltare con profonda commozione. Un’esperienza veramente preziosa.

viola-2Tutt’altra musica quella proposta nel weekend dall’orchestra Verdi, all’Auditorium, con una prima assoluta ed un programma inusuale: La Valse e il Boléro di Ravel preceduti da un melologo di Nicola Campogrande. Poco da dire sui due capolavori raveliani, eseguiti decorosamente ma senza lo sforzo di rivisitarli per toglier loro quel po’ di ruggine che si è formata nel tempo a causa dell’eccessiva esposizione. Così il pezzo forte del programma è diventato quello del cinquantenne compositore torinese, anche perché di melologhi non se ne sentono molti e sono sempre oggetto di curiosità ed interesse. “Le sette mogli di Barbablù” ne sono un preclaro esempio.

Nel 1909, 15 anni prima di ricevere il premio Nobel per la letteratura, Anatole France (1844-1924) scrive un delizioso racconto in cui ribalta il personaggio della novella, il ricco nobile soprannominato Barbablù; il quale, da serial killer come si presentava nei due secoli precedenti (forse alludendo agli uxoricidi di Enrico VIII) si trasforma in povera vittima delle sue terribili consorti e diventa l’uomo mite che, come Giobbe, subisce prima il fascino e poi la violenza che su di lui esercitano le perfide creature in cui si imbatte.

Il racconto scorre meravigliosamente anche perché una sempre più brava ed intelligente Ottavia Piccolo (come è bella quella sua recitazione senza istrionismi e mai sopra le righe!) legge il testo di France lasciandone trapelare tutto il sarcasmo e l’ironia. Fra la morte di ogni moglie e l’arrivo di quella successiva, Campogrande scrive degli intermezzi musicali per orchestra, assai gradevoli, a sottolineare i caratteri dei personaggi e dare un senso alle loro truci vicende. Quarantacinque minuti divertenti e raffinati.

Paolo Viola

Giacomo Manzoni, Guida all’ascolto della musica sinfonica, Feltrinelli 1967



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