5 ottobre 2019

QUANDO ALTEZZA E (MEZZA) BELLEZZA FANNO QUASI UN LAVORO

Due testimonianze dall'inesplorato mondo di hostess e steward milanesi


Prerequisiti: bella presenza, altezza 170 minimo, buona padronanza della lingua inglese. Per diventare hostess, ragazze, basta solo questo; per i ragazzi, 10 cm in più e anche un po’ di bella presenza in meno, ed ecco che vi ritrovate assunti come steward in un batter d’occhio.

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Nel caotico mondo della gig economy, le prestazioni occasionali come hostess/steward per eventi costituiscono una delle opzioni più popolari tra gli studenti e i giovani: circa il 4% dei milanesi tra i 18 e i 34 anni si propone per lavori in proprio tramite il sito www.hostess.it; un dato che potrebbe con tutta probabilità raddoppiarsi aggiungendovi i lavoratori che invece lavorano con un rapporto diretto con qualche agenzia.

Peccato che, se non a proposito della passata attività dell’on. Di Maio, di questa nicchia nell’industria dell’ospitalità si parli pochissimo, con il risultato di una sconcertante assenza di alcun tipo di dato sulle sue dimensioni e guadagni effettivi.

Questi ragazzi sono gli “ospiti invisibili”, quelle e quelli che durante quasi ogni grande e piccolo evento vi registrano il nome all’entrata, vi accompagnano per le sale o vi tengono il bicchiere mentre andate in bagno. Guadagnano per mansioni di promoter, in parole povere volantinaggio, circa 6 euro l’ora, e fino a 9 euro l’ora nel caso di un evento più importante e una responsabilità maggiore, a volte iniziano da minorenni e, in circa l’80% dei casi (sempre stando a www.hostess.it), sono donne.

Niente titoli di studio, niente esperienza e, soprattutto, totale flessibilità degli orari di lavoro: sembra che i supervisori di Arianna, 21 anni, studentessa di Giurisprudenza da tre anni e hostess ormai da due, non abbiano tutti i torti a definire il suo lavoro “il migliore dei mondi possibili”.

“Che non sia un mondo perfetto alla Leibniz lo scopri solo dopo essere stata assunta – spiega Arianna – gli orari sono spesso massacranti, si parla di anche 12 ore in piedi, le pause inesistenti, un’ora di pausa totale da cui vanno tolte le pause per il bagno, gli abusi e i maltrattamenti costantemente presenti.”.

Arianna è una dei due lavoratori a cui ArcipelagoMilano questa settimana dà una voce (e non un viso, perché ancora lavorano in questo settore e non vogliono finire nella blacklist). L’altro è Giacomo, studente di Economia che lavora come steward da quando aveva solo 17 anni. Racconta una storia un po’ diversa, lui: ha imparato come muoversi lavorando in proprio e, alla veneranda età di 23 anni, dice di essere in grado di selezionare i lavori che accetta in modo che non si rivelino spiacevoli.

“A volte non firmo il contratto fino alla fine del lavoro – dice Giacomo – perché, da tutela, può trasformarsi in un’arma che ti tiene legato al cliente o all’agenzia per quei 4 o 5 giorni, pena il pagamento di centinaia di euro di penale. Non firmando, mi do il tempo di scoprire se le mansioni assegnatemi sono dignitose e se i supervisori sono persone ragionevoli.”.

Ma le “mansioni dignitose” e i “supervisori ragionevoli”, in questo come tanti altri campi, non sono gli stessi per uomini e donne. Se Giacomo ha il lusso di non sottostare alle stesse regole di Arianna, ha anche il merito di ammetterlo: “Alle donne è richiesto di rientrare in canoni di perfezione irraggiungibili.”.

Per lui, il difetto più grande di questo tipo di impiego sono le tutele (assicurative e contrattuali) pressoché assenti e la mancanza di rapporto di fiducia tra agenzie e lavoratori che si crea di conseguenza.

Per Arianna, a quel problema se ne aggiunge un altro, ugualmente (se non più) pesante: quello dell’immagine.

“Inizia tutto dai prerequisiti, il più importante dei quali non è certo l’inglese. Se sei canonicamente bella e relativamente alta, sei assunta. Ma non finisce lì. La divisa, nella stragrande maggioranza dei casi tacchi alti e tailleur, nonostante che le mansioni vadano da lavare le tazzine del caffè a buttare sacchi di pattume fino a stare semplicemente in piedi davanti a uno stand, è controllata con precisione maniacale. L’aspetto fisico, capelli, trucco, mani e così via, viene controllato all’inizio di ogni turno e persino la postura si rivela essere fondamentale per creare l’immagine di hostess che le agenzie vogliono garantire.”.

Un’immagine che, una volta creata, è difficile da gestire. Arianna racconta che ricevere avances inappropriate sul luogo di lavoro è all’ordine del giorno, ma guai ad accettarle: dimostri di non essere una “ragazza seria”, e di non essere mai più considerata per lavori futuri: la versione “gig economy” del licenziamento.

Il peso diverso dell’immagine per uomini e donne si vede anche dalle piccole cose: mentre Giacomo (con un po’ di furbizia e di insistenza) riesce solitamente a mangiare qualche avanzo con i ragazzi del catering, ad Arianna – che, vale la pena di ricordarlo, lavora in un’agenzia diretta prevalentemente da donne come lei – non è concesso lo stesso privilegio. “Mangiare con i ragazzi del catering è fuori discussione – racconta – perché distruggerebbe l’immagine dell’hostess perfetta, eterea che le agenzie sono così interessate a creare. Ricordo una ragazza ‘licenziata’ perché, sul punto di svenire per inedia, aveva osato chiedere un bicchiere di Coca-Cola senza avere l’autorizzazione”. Sembrano sciocchezze, ma quando un pranzo equivale a un’ora di lavoro (7 euro in media) cessano di esserlo.

Dove si pongono, dunque, in questo mondo ossessionato dall’immagine, gli steward, gli uomini? “Spesso vengono inseriti due o tre steward ogni dieci hostess per creare una situazione più ‘equilibrata’ “, racconta Giacomo. Come il suo specchio, però, questa quota rosa alla rovescia non risolve nessuna delle contraddizioni del fantasmagorico mondo dell’organizzazione eventi, dove le ragazze sono cartelloni pubblicitari viventi e lavapiatti all’occasione e le persone di colore sono rappresentate esclusivamente nel campo degli addetti alla sicurezza, perlopiù uomini.

Arianna e Giacomo vanno ascoltati come due voci distinte, che affrontano difficoltà diverse pur lavorando nello stesso capannone. Giacomo vorrebbe che le tutele normalmente garantite ai lavoratori (pasti, rimborso spese per trasporto, pause, assicurazioni e così via) fossero trattate come ovvietà e non favori dalle agenzie per cui si trova di volta in volta a lavorare – agenzie che hanno il lusso contrattuale di non avere obblighi grazie allo strumento della “prestazione occasionale”. Arianna auspica che la ferma opposizione a discriminazioni e comportamenti di tipo sessista, che si sta affermando in altri ambiti, possa contagiare anche il suo settore.

Entrambi sanno a chi dare la colpa per le loro tribolazioni: alle agenzie. “Sono loro che potrebbero cambiare le cose, creare un clima più sano e meno focalizzato su dettagli sessisti e inutili come il tipo di cinturino sulla scarpa col tacco”, dice Arianna. Ma non lo fanno, anzi: “forti della consapevolezza che di giovani in cerca di lavoro in Italia se ne trovano tanti dice Giacomo – ti trattano come un ‘usa e getta’ e rendono impossibile un qualunque rapporto di fiducia tra agenzie e lavoratori.”. Rapporto che potrebbe divenire la base di contratti più chiari, produttività maggiore (meno belle statuine, più mansioni specifiche) e magari anche un sessismo meno pronunciato, considerata l’inusuale predominanza di donne nel settore.

La flessibilità, ancora una volta, si rivela un’arma a doppio taglio: mentre sostiene una generazione altrimenti destinata, in Italia, a non raggiungere neppure un minimo di indipendenza economica, la rovina inserendola in logiche opportunistiche, patriarcali e gerarchiche fin dai primi passi nel mondo del lavoro.

Elisa Tremolada



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