28 gennaio 2021

LA RISCOPERTA DEI GIOVANI

I” flash” che il Covid ha fatto scattare sul mondo delle nuove età


Secondo l’Istat, il tasso di disoccupazione tra i giovani è salito a dicembre al 29,7 per cento (9 per cento quello complessivo). A novembre era al 29,5 percento, il mese prima era al trenta. Più di un terzo della popolazione italiana in età di lavoro non ha dunque lavoro: un record negativo in Europa. Secondo l’Istat i giovani in Italia sono tra i dodici e i tredici milioni, un quinto dell’intera popolazione. In quest’universo convivono ragazzi di quindici anni e uomini maturi di trentaquattro anni. La dilatazione del significato di “giovane”, anche per un istituto di statistica, è clamorosa.

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La percezione comune supera anche quella barriera. Mi fa piacere, perché anch’io di questo passo potrei sentirmi giovane, anche se dovrei aggiungere “diversamente”. Del resto il complimento più gradito a qualsiasi maggiorenne si riassume nella formula “ha un aspetto giovanile”. Oppure, in aggiunta, “si mantiene sempre giovane”. Quasi una pregiudiziale difesa dell’anziano, in un’epoca in cui, per colpa del coronavirus, di vecchi se ne sono andati tanti e tanti altri hanno salutato con compiacimento il valore della selezione naturale.

D’altra parte, secondo l’ultimo rapporto del Censis, il 49,3 per cento dei giovani rivendica per sé il diritto alla priorità della cura. Trascurando il fatto che tale diritto alla cura (articolo 32 della Costituzione) e soprattutto il diritto alla vita sono di tutti a prescindere dall’età. Ai miei tempi si veneravano i nonni, esempi di rettitudine, di saggezza, di volontà positiva…

Oggi “in una società – cito ancora il Censis – sfibrata dallo spettro del declassamento sociale”, in una società impaurita e rancorosa, mi chiedo se nell’atteggiamento di quei, numerosi, giovani, non pesi una gran rabbia perché si ritrovano in una condizione sociale ed economica ben più bassa, incerta, rischiosa, di quella vissuta dai loro genitori, riconoscendosi per giunta privi di quella speranza nel progresso che quasi certamente aveva animato i loro nonni, se pure in uno stato di pesante difficoltà (pensiamo al fascismo, alla guerra…).

Secondo il Censis il 50,3 per cento dei giovani vive peggio dei padri e nelle famiglie di quaranta lavoratori autonomi su cento i figli sono “scesi” in una classe d’occupazione inferiore, tra gli operai o nel terziario non qualificato.

Non è facile però reagire, anche se qualcuno “reagisce”, e soprattutto non è comodo reagire. Prevale l’istintiva ricerca di una difesa: “Se il grado di protezione del lavoro e dei redditi è la chiave per la salvezza, allora la logica sociale vincente dice che oggi è vitale e razionale per tutti conquistare protezioni, accaparrando diritti su risorse pubbliche, meglio se prolungati, meglio ancora se eterni”.

È la conferma della vocazione antica al “posto fisso”, possibilmente nella pubblica amministrazione, una vocazione che ha conosciuto una versione aggiornata per quanto parziale nella rivendicazione del “reddito di cittadinanza”. “Saranno disincentivati – ci ricorda ancora il Censis – la voglia di fare, di andare in mare aperto, di rischiare, di giocarsela sul mercato. Quasi il 40 per cento degli italiani (il 41,7 per cento dei più giovani) afferma che, dopo il Covid-19, avviare un’impresa, aprire un negozio o uno studio professionale è un azzardo, perché i rischi sono troppo alti…”. Solo il 13 per cento non si nega questa opportunità.

C’è, come sempre, l’altra faccia, perché se sono molti i giovani che, dopo aver denunciato scarse opportunità di lavoro, molte legate ancora ad amicizie, legami parentali, raccomandazioni, si dichiarano disponibili a lasciare nel cassetto diploma, laurea e ambizioni, riscoprendo il lavoro manuale.

Prima condizione: venire discretamente pagati. Poi poter esprimere la propria creatività e godere della elasticità degli orari. Secondo una ricerca dell’Istituto Toniolo, la grande maggioranza non teme il cambio frequente dei committenti, non teme l’impegno festivo, la variabilità degli orari, non teme le trasferte e neppure il cambiamento eventuale di sede. O quasi. Pochi invece consiglierebbero a un compagno un lavoro come telefonista in una call center, tuttofare in un fast food, distributore di volantini. Meglio l’operatore ecologico, meglio l’operaio in fabbrica (per i maschi) o la commessa (per le donne). Meglio ancora qualche occupazione nell’agricoltura. L’obiettivo primo è raggiungere alla soglia dei trentacinque anni uno stipendio di millecinquecento euro al mese. Duemila euro sono un sogno riservato ai laureati…

La flessibilità corre ben oltre quanto si prefissavano le politiche del lavoro negli anni più recenti, quando via via è stata legittimata la precarietà attraverso le forme più varie e fantasiose dei contratti. Ben oltre, perché alla sopravvivenza di una legittima aspirazione al “posto fisso” e comunque ad una carriera garantita, tra i giovani si sono affermati da una parte il rifiuto dello sfruttamento a prescindere dalla qualità della prestazione, dall’altro, per reazione, la ricerca di indipendenza: alla flessibilità imposta dal padrone si preferisce la magari più rischiosa flessibilità in autodeterminazione.

Orientamenti culturali nuovi si impongono, suggeriti da sensibilità nuove: non c’è dubbio che una gigantesca questione ecologica abbia sospinto molti verso l’opportunità di un lavoro compatibile, nella agricoltura biologica, ad esempio, nella pastorizia, nel turismo come guida o come accompagnatore di montagna…

Mentre la stampa quotidianamente esalta il futuro di professioni legate alle nuove tecnologie, qualcuno si rende conto che ci sarebbe ancora bisogno di qualcosa che sa d’antico: produrre il finto marmo è un’arte, allevare capre vale come una risorsa importante per una nostra valle alpina negli anni in cui si riscopre la tradizione gastronomica, sapere ripristinare un tetto in beole o in scandole di larice o di cedro è una necessità se si punta ad un recupero del patrimonio edilizio nel rispetto per l’ambiente, raccogliere e lavorare il miele può garantire un ottimo reddito…

Se si indugia attorno a indagini sociologiche, si può scoprire che tra le aspirazioni dei giovani cala quella di diventare calciatore, mentre sale quella di proporsi come influencer. Ma in questo, quando entra in gioco una nuova forma di comunicazione, le varianti sono tante. Non è la signora Ferragni il modello più seguito. Il web è invaso dai cosiddetti tutorial di giovani idraulici che insegnano a smontare un sifone, di giovani ciclisti che mostrano come lavare la bicicletta e indicano test d’allenamento, di maestri di yoga che illustrano movenze e posizioni…

Si può trovare di tutto: come alimentarsi per la maratona, come cambiare il cinturino dell’orologio, come rinforzare i muscoli delle gambe, come salire in cima al Monte Bianco. La precettistica targata Hoepli (i famosi manuali) o le guide Touring e Cai sono sparite dalla scena. Il web offre mille soluzioni alle vostre domande e per giunta gratis. Lasciando a chiunque la facoltà di proporsi come insegnante, come esperto pronto a offrire anche consigli utili per trovare un lavoro. La fantasia al potere unita all’etere, grazie, molto spesso, ad autentica bravura, moltiplica le occasioni. Non ironizzo. Constato invece che i clienti non difettano.

Una volta si diceva che il bisogno aguzza l’ingegno. In questo caso l’arte di arrangiarsi si sposa con interessi autentici, con altrettanto autentiche passioni, con i nuovi strumenti, pure con il sacrificio e con una voglia di indipendenza che sottragga alle situazioni imposte da un’azienda, grande o piccola: anche solo per la gratificazione di una sfida e per il riconoscimento di una capacità, per sfuggire a condizioni di impiego che intrappolano in una perenne precarietà, in cui impegno e competenza non vengono riconosciute (ancora l’Istat: Il 41 per cento dei diplomati e il 31,4 per cento dei laureati dichiarano che per svolgere adeguatamente il proprio lavoro sarebbe sufficiente un più basso livello di istruzione rispetto a quello posseduto).

Di questo passo sarebbe un rivolgimento forte nel mondo del lavoro e nella considerazione del lavoro. Il covid ha aggiunto qualcosa oltre a difficoltà e crisi scontate: ha aggiunto lo smart working (home working o “lavoro agile”, come lo definiva una legge del 2017, dunque prima del covid) con conseguenze che potrebbero rivelarsi pesantissime per il sistema e, ancor di più, per i nostri comportamenti, per i nostri rapporti, per l’esistenza stessa dei cosiddetti corpi intermedi (i sindacati in primo luogo).

È ovvio che lo smart working coinvolge, per il presente e per il futuro, soprattutto i giovani, più pronti alle novità tecnologiche, più duttili di fronte a nuove opportunità, più esposti (perché ormai meno garantiti, meno contrattualizzati) a nuove negatività. Faccio un esempio (che mi tocca da vicino per via della mia ormai “storica” professione): giornali e giornalismo.

Al progressivo svuotamento delle redazioni (gli editori risparmiano su affitti, luce, buoni pasto, i direttori si risparmiano qualsiasi obbligo di interlocuzione con i loro sottoposti), all’idea (proposta un ventennio fa) di giornali costruiti grazie ad una “testa” (un desk di pochi redattori e grafici) e a una miriade di collaboratori esterni, poco costosi, facilmente governabili (e ricattabili) si contrappone, forse avventurosamente, la scommessa di una informazione/ comunicazione costruita dal basso da giornalisti riuniti, imprenditori di se stessi, su una piattaforma di lavoro collaborativo, gestendo collettivamente e a distanza processi decisionali, creando e caricando contenuti multimediali, archiviando, intervistando da lontano, producendo video, disegnando innografiche… In fondo si è già dimostrato che con un telefonino si può girare un film.

Oreste Pivetta



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