19 aprile 2021

LO STATUS SOCIALE DEGLI INSEGNANTI E DELLA SCUOLA IN ITALIA

La scuola prima di tutto. a che punto siamo


 

Status sociale è un concetto spesso ambiguo. Ma anche inevitabile. Ogni professione, in ogni società, è svolta entro un contesto di tradizioni, gradi di libertà, rapporti formali e informali, vincoli. Un insieme di considerazioni che si sommano esattamente in quelle due parole ambigue ed inevitabili. Una bella ricerca, molto poco nota, si è data l’obiettivo di valutare come è vista la professione di insegnante nella graduatoria di status sociale che ogni società disegna intorno alle figure che esercitano ruoli chiave. E lo ha fatto in un gran numero di Paesi. La ricerca, al momento unica nel suo campo, è frutto della collaborazione tra Varkey Foundation e l’università del Sussex. Essa costruisce una graduatoria dello status sociale degli insegnanti della scuola primaria e secondaria in ogni Paese partendo da una serie di indicatori. La ricerca ha coinvolto in ogni Paese un campione di 1000 persone (età dai 16 ai 64 anni) cui si aggiunge un secondo campione di 200 di insegnanti. In entrambe i casi la ricerca è effettuata attraverso un questionario amministrato via Web. Una prima versione è stata effettuata nel 2013 e riguardava 21 Paesi. La versione del 2018 è stata estesa a 35 Paesi.

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Come per tutte le ricerche di “opinione”, i risultati vanno presi con attenzione. Il fatto che la ricerca venga effettuata solo online significa ad esempio che quel campione della popolazione rappresenta in maggior misura persone con cultura e disponibilità di tecnologia superiori alla media. E una qualche insoddisfazione deriva dal fatto che mentre il rapporto di ricerca spiega adeguatamente come è svolta la ricerca in ogni Paese, non dice molto sul modo in cui è costruito l’indice di base sullo status sociale degli insegnanti. Essa comunque tratta un argomento importante e che per la prima volta viene messo a fuoco. Per questo, e per i parecchi argomenti di indagine che essa tocca, sembra opportuno percorrerla con attenzione. Altre ricerche svolte dall’OCSE e dall’Unione Europea mettono a fuoco temi che toccano da vicino lo status degli insegnanti e della scuola. È sembrato opportuno cogliere l’occasione per parlare anche di questi.

1. Gli insegnanti italiani in fondo alla graduatoria

Lo status sociale degli insegnanti italiani si colloca ad un livello molto più basso rispetto a quello di quasi tutti i 35 Paesi presi in esame. Ancor più in basso si colloca, a sorpresa, lo status sociale degli insegnanti in Israele (vedi Tavola 1, seconda colonna). Ma mentre in Israele il basso livello dello status sociale dell’insegnante nella scuola primaria e secondaria è da tempo un fatto discusso e valutato (vedi al proposito un bello studio OCDE del 2004), non risulta che lo stesso sia avvenuto od avvenga in Italia. Ce ne sarebbe bisogno.

Anche per la media degli otto Paesi Europei inclusi nella tavola l’indice di status sociale degli insegnanti non appare elevato. Esso si colloca a livello 34, in una scala da uno a 100. Ma l’indice relativo agli insegnanti italiani si colloca ad un bassissimo livello 14, seccamente meno della metà. La Cina, in forza di un confucianesimo che è sempre rimasto il collante culturale di quel Paese, assegna agli insegnanti uno status sociale elevatissimo: con un punteggio 100. La Russia viene in quarta posizione (di mezzo ci sono Malesia e Taiwan, due Paesi non inclusi nella tavola) con punteggio 64. Se, come forse è opportuno, non si vuol dare un significato eccessivo al valore assoluto del punteggio, ma si vuol fare riferimento solo al posizionamento relativo di ogni Paese nella graduatoria, il posizionamento dell’Italia è comunque al penultimo posto della classifica. (Vedi il rapporto Italia per un quadro completo dei risultati della ricerca riferita al nostro Paese).

Nella stessa Tavola 1, terza colonna è riportato il livello di status sociale degli insegnanti come valutato dagli stessi insegnanti e non più dalla popolazione del Paese. Ci sono non poche differenze in più o in meno tra i due. In gran parte dei Paesi in cui lo status sociale dell’insegnante percepito dalla popolazione è elevato gli insegnanti si auto-attribuiscono uno status sociale uguale o ancor più elevato (uguale in Cina, Canada, Regno Unito, più elevato in Russia, Corea, Svizzera, Turchia). In Germania e in Italia si registra uno status sociale autostimato dagli insegnanti quasi identico a quello che viene attribuito dalla popolazione del Paese. In tutti gli altri Paesi il livello di status sociale autostimato dagli insegnanti è minore (talvolta di molto, vedi Stati Uniti, Portogallo, Spagna ed Ungheria) rispetto al livello di status sociale attribuito agli insegnanti dalla popolazione. Varrebbe la pena andare più a fondo sull’argomento. Ma, ai nostri effetti, limitiamoci a registrare il fatto che anche secondo i diretti interessati, lo status sociale degli insegnanti italiani viene sempre in coda alla graduatoria: non più in penultima posizione, ma terzultima, alla pari con il Portogallo.

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2. Il livello di rispetto che gli alunni hanno per gli insegnanti

Uno degli elementi sui quali si basa la costruzione dell’indice di status sociale dell’insegnante è particolarmente significativo. Esso riguarda il livello di rispetto che, secondo le persone intervistate in ogni Paese, gli alunni hanno nei riguardi dei loro insegnanti. La Tavola 2 espone la graduatoria dei Paesi che si ottiene sommando la percentuale di studenti che hanno un livello elevato o abbastanza elevato di rispetto nei confronti dei loro insegnanti. La graduatoria dei Paesi nella Tavola 2 non si discosta significativamente dalle due graduatorie della Tavola 1. Con due rilevanti eccezioni: Russia e Corea. In questi due Paesi negli ultimi 30 anni sono avvenute modifiche radicali nell’assetto sociale e nell’organizzazione dello stato. In Corea le nuove generazioni si riconoscono molto meno nel confucianesimo, dottrina che assegna un ruolo di primaria importanza proprio agli insegnanti, mentre la popolazione più adulta è portata a ritenere ancora intatto il ruolo politico e morale di quella tradizione. Nell’ex Unione Sovietica il ruolo degli insegnanti era molto elevato, soprattutto per quanto riguardava gli insegnanti di materie scientifiche o tecniche, ma quel ruolo si è eroso velocemente nel periodo successivo alla caduta del comunismo e di questo i giovani alunni hanno una percezione netta.

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La percentuale media degli studenti con un buon livello di rispetto nei confronti degli insegnanti negli altri sette Paesi europei non è elevata. Essa è pari al 26%, poco più della metà rispetto a Canada e Stati Uniti. Anche in questo caso l’Italia è nella coda quasi estrema della graduatoria, con una bassissima percentuale (16%) di studenti che hanno un buon livello di rispetto nei confronti degli insegnanti.

3. Età degli insegnanti

Un fattore contribuisce di sicuro alla grande differenza degli indici di status sociale riferiti agli insegnanti italiani rispetto agli altri Paesi europei. Ed è la differenza di età del corpo insegnante. Come si vede nella Tavola 3, l’Italia è il Paese OCSE i cui insegnanti hanno di gran lunga l’età più elevata. La percentuale degli insegnanti nelle scuole primarie e secondarie che hanno un’età superiore ai 50 anni in Italia è pari al 59%, 23 punti percentuali in più rispetto alla media del 36% negli altri Paesi OCSE. La differenza è ancor più vistosa nei confronti della Francia (31 punti percentuali) e del Regno Unito (40 punti percentuali). Non si tratta solo del fatto che insegnanti in età più avanzata (in gran parte donne, in Italia più che in altri Paesi) hanno una dimestichezza con le tecnologie informatiche inferiore a quella di molti loro alunni. Si tratta anche di una minor capacità degli insegnanti di trasmettere il contenuto del loro insegnamento su una lunghezza d’onda (linguaggio, esempi, emozioni, stile di vita ecc.) che possa trovare ascolto da parte degli studenti.

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4. Tre retribuzioni a confronto

Uno degli elementi di cui la ricerca Varkey si avvale per definire il livello di status sociale degli insegnanti in ogni Paese è il confronto tra la retribuzione effettiva degli insegnanti (dato oggettivo) con la retribuzione che gli intervistati “pensano” sia la retribuzione percepita dagli insegnanti e ancora con la retribuzione che secondo gli intervistati sarebbe “quella appropriata” per il lavoro che fanno gli insegnanti. Il tutto è esposto nella Tavola 4. È una tavola di grande interesse. Anche altri Paesi hanno loro specificità. Ma il Paese che più di tutti sorprende è proprio l’Italia. Nel 2018 la remunerazione di un insegnante italiano era, a parità di potere di acquisto, equivalente a 34.000 dollari l’anno, ben meno dei 65.000 dollari dell’insegnante tedesco e dei 48.000 dollari dell’insegnante spagnolo. Ma in confronto con altri Paesi non è così negativo per l’insegnante italiano. La retribuzione dell’insegnante italiano nel 2018 era praticamente allineata alla retribuzione degli insegnanti francesi e britannici (Tav. 4, colonna 2).

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Ma (Tav. 4, colonna 3) gli italiani sono gli unici in Europa che “pensano” che la retribuzione degli insegnanti sia fortemente inferiore, addirittura meno della metà, rispetto al suo livello reale. Fenomeno questo che non si registra in misura minimamente analoga in nessun altro Paese. Nella maggior parte degli altri Paesi la stima degli intervistati circa la retribuzione degli insegnanti è abbastanza allineata alla retribuzione reale, con una differenza significativa al ribasso solo in Spagna (retribuzione reale 48.000 dollari, retribuzione stimata 38.000 dollari) e forti differenze al rialzo in Corea, Cina e Russia.

Più sorprendente ancora è il fatto che gli italiani sono (Tavola 4, colonna 4) gli unici a ritenere che la retribuzione “adeguata per un insegnante” sia del 40 per cento inferiore alla sua effettiva retribuzione attuale (anche se del 25% superiore alla bassissima retribuzione stimata). Se si ignora la Spagna (dove la differenza in meno tra la retribuzione ritenuta “adeguata” è inferiore a quella reale del 10%) in tutti gli altri Paesi la retribuzione ritenuta “giusta” è di fatto uguale o superiore a quella effettiva. L’eccezione italiana appare vistosa: ed è stata di sicuro un elemento determinante per l’attribuzione di un livello di status sociale molto basso agli insegnanti italiani.

L’anomalia italiana non termina qui. Come si è visto, la percezione degli intervistati italiani è che gli insegnanti siano pagati pochissimo, che debbano essere pagati un po’ di più, ma comunque molto meno di quanto sono di fatto pagati. Eppure l’Italia è un Paese in cui una percentuale relativamente elevata di famiglie vede in modo positivo l’ipotesi che i loro figli (soprattutto figlie) intraprendano la carriera di insegnante. Come si vede nella Tavola 5, la percentuale attribuita all’Italia è inferiore a quella della Svizzera e della Spagna ma supera quella di Francia, Paesi Bassi, Germania e Regno Unito, tutti Paesi con un indice di status sociale dell’insegnante ben superiore a quello italiano.

Il rapporto Varkey non cerca di spiegare la contraddizione tra questo relativo gradimento nei confronti della carriera scolastica e il basso livello di prestigio sociale che circonda in Italia la professione dell’insegnante. Sono due le possibili spiegazioni:

  • La professione di insegnante nella scuola primaria e secondaria si esercita con una durata del lavoro (ore giornaliere e giorni all’anno) che non hanno l’equivalente in gran parte delle altre professioni. Questo rende la professione di insegnante particolarmente attraente nei confronti delle donne, che sono la stragrande maggioranza degli insegnanti in queste scuole (in Italia sono donne il 96% degli insegnanti della scuola primaria e il 69% nella scuola secondaria, percentuali superiori a tutti gli altri Paesi europei).

  • La professione di insegnante dava, e si spera dia ancora, adito ad un posto fisso per tutta la vita.

Queste due spiegazioni sono probabilmente non lontane dalla realtà. Spiegano il perché di una certo interesse alla professione di insegnante, e sono compatibili con un basso livello dello status sociale degli insegnanti.

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5. Assenze da scuola

Il basso livello dello status sociale degli insegnanti non può non ripercuotersi sul modo in cui gli studenti valutano la loro presenza in classe. Nel corso della compagna di rilevazione PISA 2018 sono state rilevate le assenze da scuola dei ragazzi di 15 anni nelle due settimane precedenti alla rilevazione. Vi è una corrispondenza solo parziale tra le graduatorie di Tavola 2 (livello di rispetto per gli insegnanti) e quella di Tavola 6. Ungheria e Turchia, ad esempio, si scambiano letteralmente le posizioni. Ed anche per parecchi altri Paesi il posizionamento in graduatoria secondo la percentuale dei quindicenni che sono stati assenti da scuola almeno una volta nelle due settimane precedenti la rilevazione non corrisponde al posizionamento dei Paesi nella graduatoria di Tavola 2.

Mille motivi possono spiegare le differenze, Vedi le difficoltà di raggiungere la scuola nelle campagne povere della Turchia e della Spagna, o le grandi distanze sommate alle difficoltà climatiche nel lungo periodo invernale in Paesi come Canada e Russia. In cima alla classifica si collocano comunque Cina e Corea del Sud, i due Paesi asiatici dove lo status sociale degli insegnanti è particolarmente elevato, e in fondo alla classifica si collocano invece Israele e Italia, i due Paesi dove lo status sociale degli insegnanti è particolarmente basso. L’Italia si colloca in ultima posizione, con assenze da scuola che sono più del doppio rispetto alla media di quelle dei Paesi OCSE.

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6. La scuola secondaria italiana: dalla Serbia alla Svezia

La scuola italiana è gestita in modo fortemente centralizzato. Questo dovrebbe garantire quanto meno risultati di apprendimento relativamente omogenei nelle varie aree del Paese. Eppure, dal punto di vista scolastico l’Italia è un insieme di realtà territoriali fortemente disomogenee. Molto più di quanto normalmente si pensi. Come si vede nella Tavola 7, i risultati dell’indagine PISA che l’OCSE svolge ogni 3 anni sugli alunni di 15 anni fa emergere tre Italie del tutto distinte. I quindicenni delle regioni del Nord-Est e del Nord-Ovest frequentano scuole che hanno un punteggio PISA in linea con quello dei quindicenni del Regno Unito e della Svezia. Un po’ meglio dei quindicenni svizzeri. I quindicenni del Mezzogiorno e delle Isole hanno risultati che li pongono alla pari grosso modo con i loro coetanei Serbia e Cile, leggermente al di sotto rispetto ai quindicenni della Turchia. I quindicenni che frequentano le scuole nel Centro Italia sono a metà strada, con risultati pari a quelli della media dei Paesi OCSE.

Anche all’interno di altri Paesi Europei esistono notevoli differenze nei risultati PISA. Ma non esistono mai distanze così vistose. I risultati peggiori nel Regno Unito, ad esempio, si registrano nel Galles, dove abita tuttavia solo il 5% della popolazione inglese e dove si registra comunque una differenza del punteggio PISA molto più contenuto.

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In Spagna le tre comunità autonome con i peggiori risultati PISA sono l’Andalusìa, la Murcia e le Isole Canarie (un quarto della popolazione spagnola). Ma la differenza nel loro punteggio PISA rispetto alle regioni con i risultati migliori (Madrid, Galizia, Asturie e Cantabria) è pari all’incirca alla metà rispetto a quella che si registra tra Mezzogiorno e Nord-Italia. E questo nonostante il fatto che il sistema scolastico spagnolo sia gestito in modo assai più decentrato rispetto a quello italiano.

7. Internet nelle scuole primarie e secondarie

La velocità del collegamento Internet di cui una scuola è fornita è il singolo miglior indicatore della dotazione tecnologica complessiva della scuola. La velocità del collegamento Internet è significativa di per sé. Essa è inoltre il fattore di maggior traino della ulteriore dotazione informatica della scuola (in particolare la dotazione di PC e di software per gli studenti). La dotazione tecnologica della scuola inevitabilmente si riflette sullo status sociale di chi insegna in quella scuola.

Indagini della Commissione Europea del 2018/19 mettono in evidenza il numero di studenti di scuole primarie e secondarie che frequentano scuole con un collegamento Internet superiore a 30Mbps nel 2018. La media tra tutti i Paesi dell’Unione (Paesi membri dell’Est Europa inclusi) è del 47%. Con punte vicino al 100% in Danimarca, Svezia, Belgio e Paesi Bassi. L’Italia nel 2018 veniva decisamente in coda con solo il 20% delle scuole raccordate ad Internet con un collegamento di almeno 30Mbps (percentuale superata anche dalla Romania). Lo stesso risultato è confermato nella seconda colonna della stessa tavola, dove si espone la percentuale delle scuole (pesate in numero di studenti) il cui dirigente denuncia un’inadeguatezza del collegamento Internet nel 2019. Ancora una volta l’Italia arriva in ultima posizione: il 43% degli studenti italiani frequentano una scuola i cui presidi giudicano inadeguato il collegamento Internet di cui la scuola è dotata. Nella media dei Paesi dell’Unione la stessa percentuale è pari al 24 per cento. Essendo molti presidi persone in età non giovane (soprattutto in Italia) e probabilmente non espertissime in tecniche digitali, è possibile che la valutazione circa l’inadeguatezza del collegamento Internet esistente a scuola sia notevolmente sottostimata.

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8. Il livello di alfabetizzazione finanziaria degli studenti italiani

Nella scuola secondaria italiana non esiste una “materia” di insegnamento che faccia apprendere agli studenti gli strumenti indispensabili per gestire in futuro l’elevato flusso di informazioni finanziarie che li riguarderanno da vicino. I risultati si vedono.

Nel 2018 la ricerca PISA dell’OCSE ha svolto per la seconda volta un’indagine sul livello di alfabetizzazione finanziaria degli studenti di 15 anni in 20 Paesi tra cui l’Italia. L’indagine mette in evidenza il livello di conoscenza e di familiarità che i quindicenni hanno nei confronti di strumenti importanti per avere in futuro un buon livello di cittadinanza finanziaria. Saper ad esempio calcolare una percentuale, sapere la differenza tra prezzi e costi, conoscere concetti quali reddito, imposte, tasso di interesse, risparmio e rendimento del risparmio, capire le bollette ecc. I risultati peggiori, in termini relativi, sono proprio quelli relativi agli studenti italiani (vedi Tavola 4). Secondo un calcolo fatto nel rapporto PISA (pag. 65) in Italia si riscontra la maggior distanza negativa tra il risultato relativo alla alfabetizzazione finanziaria e il risultato che era atteso sulla base del punteggio ottenuto dagli stessi studenti italiani in lettura e matematica. Il punteggio di alfabetizzazione finanziaria dei quindicenni italiani è più basso di ben il 17% rispetto al risultato atteso in base al loro punteggio PISA. Estonia e Finlandia hanno gli studenti con la più elevata alfabetizzazione finanziaria. Ma anche in Russia e Spagna i risultati superano in modo notevole quelli degli studenti italiani. Il livello di alfabetizzazione finanziaria dei quindicenni italiani è peggiore, e di molto non solo rispetto ai quindicenni di Paesi più ricchi (Stati Uniti, Australia, Finlandia) ma anche rispetto ai quindicenni di Paesi più poveri aderenti all’OCSE (Spagna, Portogallo, Estonia).

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9. Solo in Italia i professori fanno strada in politica

La scuola in Italia, e non solo per le cose cui si è fatto cenno in questo testo, non è messa bene. Sulla base dei risultati dell’indagine Pisa (indagine che viene effettuata sui ragazzi di 15 anni in tantissimi Paesi) ci collochiamo in fondo alla graduatoria OCSE in tutte e tre le materie oggetto di quell’indagine (comprensione di ciò che si legge, matematica e scienze).

Per quanto riguarda l’università le cose vanno, se possibile, ancora peggio. Esistono tre graduatorie internazionali delle università che vengono considerate autorevoli. Ciascuna graduatoria ha propri criteri di valutazione. Per andare sul sicuro abbiamo fatto la media delle tre graduatorie. In questo media, tra le prime 150 università in ordine di eccellenza accademica, il Regno Unito ne conta 19, l’Australia 11, la Germania 9, l’Olanda 8, la Svizzera 6, la Francia 4, la Svezia 4. L’Italia ne conta solo una.

Nella fascia dei giovani tra 25 e 34 anni in Irlanda i laureati sono il 56%, in Gran Bretagna il 51%, in Francia il 47%, in Spagna ed in Polonia il 44%, in Turchia il 33% e in Italia solo il 28%. La scuola primaria e secondaria italiana nel confronto con altri Paesi sta meglio dell’università.

A fronte di questo mezzo disastro della scuola e della università italiana, non si può non parlare di una ulteriore stranezza tutta italiana. Di cui, come per lo status sociale degli insegnanti, non si parla mai. Quale è la professione che più facilmente può portare a diventare il numero uno, due o tre nella politica del proprio Paese? Francamente non conosco la risposta per altri Paesi. So solo che dappertutto all’estero se uno vuol arrivare al top della politica non si mette a fare per prima cosa il professore universitario. Nessun professore universitario in questo dopoguerra (in oltre 70 anni cioè) è diventato presidente degli Stati Uniti. Nessun cancelliere tedesco nel dopoguerra è stato professore universitario. Lo stesso vale per i presidenti della repubblica francese. Anche tra i primi ministri sono pochissimi in Europa quelli che provengono dalla carriera accademica. La Francia ha avuto parecchio tempo fa due primi ministri che hanno fatto un po’ di accademia: Michel Debré in giurisprudenza a Parigi e Raymond Barre in economia a Sciences Po, sempre a Parigi. La Gran Bretagna ha avuto due Primi Ministri del Labour Party che hanno fatto vita accademica: Harold Wilson a Oxford e in misura assai minore Gordon Brown all’università di Glasgow. In Spagna solo Zapatero è stato per un periodo assistente di diritto costituzionale all’Università di Leòn.

Solo in Italia chi vuol puntare al top della politica sembra avere un canale di accesso privilegiato se prima è diventato professore universitario. Nel dopoguerra l’Italia ha avuto 4 presidenti della Repubblica che provenivano dall’Università: Luigi Einaudi (economia, Università di Torino e Bocconi), Antonio Segni (giurisprudenza, Università di Sassari), Giovanni Leone (giurisprudenza, università di Messina e di Bari) e Francesco Cossiga (giurisprudenza, Università di Sassari). Gli ultimi 3 sono stati anche Presidenti del Consiglio. A questi 3 si aggiungono, sempre nel secondo dopoguerra i seguenti professori universitari divenuti, in ordine di tempo, presidenti del Consiglio: Giuseppe Pella (economia, Università di Roma e di Torino), Amintore Fanfani (economia, Università Cattolica), Aldo Moro (giurisprudenza Università di Bari e di Roma), Giovanni Spadolini (Storia, Università di Firenze), Giuliano Amato (giurisprudenza, la Sapienza), Romano Prodi (Economia, Università di Bologna), Giuseppe Conte (Giurisprudenza, Università di Firenze), Mario Draghi (politica monetaria, Università di Firenze).

A questi si aggiunge un elenco assai lungo di cattedratici tra le seconde file politiche. Senza alcuna completezza, citiamo i nomi più noti, sempre dagli anni 50 in poi: Guido Gonella, Giuseppe Medici, Vincenzo Scotti, Luigi Berlinguer, Tullio De Mauro, Rocco Buttiglione, Nino Andreatta, Giuliano Urbani, Antonio Martino, Gianfranco Miglio, Giulio Tremonti, Giuliano Vassalli, Leopoldo Elia. Eccetera. Come si vede, l’estrazione di politici italiani di rilievo dalla carriera accademica è massiccia, trasversale e continua nel tempo.

Non risulta che questa poderosa presenza di insegnanti universitari nelle sfere più alte del governo e delle istituzioni italiane sia servita a porre scuola ed università al centro dell’attività di governo. Tutto l’opposto. L’hanno fatto, ma solo in quanto ministri della Pubblica Istruzione, Guido Gonnella, Luigi Berlinguer e Tullio de Mauro. Salve mie dimenticanze, quel lunghissimo elenco di professori è stato quasi del tutto zitto su fatti della scuola e dell’Università. Venendo ai tempi più recenti, Giuseppe Conte è stato famoso per avere rinviato tante scelte importanti al futuro. Non ha rinviato nulla per quanto concerne scuola e università perché nei quasi tre anni in cui è stato presidente del Consiglio non ha dedicato la minima attenzione al tema della scuola e dell’università. Draghi segnerà una svolta? Può darsi. Nel suo discorso programmatico davanti alle Camere ha fatto un bel richiamo ad un ben altro ruolo che gli istituti tecnici dovrebbero svolgere. Sta dando alla riapertura delle scuole una priorità che nessuno ha prima ritenuto opportuno dare. Speriamo continui. Il cammino per ridare slancio alla scuola italiana è lunghissimo.

10. In Italia non esiste una gran domanda per una “scuola migliore”

Ricorriamo per un’ultima volta ad esempi dall’estero. Se la scuola pubblica non è all’altezza, come ad esempio in India e in Cina largamente succede, tanti genitori indiani o cinesi risparmiano anche sul cibo pur di fare studiare i figli in una buona scuola privata. In India e in Cina le scuole private sono spesso di ottimo livello. In Italia manca quasi sempre anche questa alternativa. Se le università americane sono tra le migliori al mondo, 400.000 famiglie cinesi si sobbarcano ogni anno il costo di mandare i loro figli a quelle università e lo stesso fanno ogni anno quasi 200.000 famiglie indiane. Più eclatante ancora il caso della Corea del Sud. È un Paese che ha meno popolazione dell’Italia, un PIL pro-capite paragonabile a quello italiano ed una scuola superiore che, stando alle classifiche PISA, è tra le migliori al mondo. Eppure circa 60.000 studenti coreani frequentano le migliori università americane, soprattutto in facoltà che insegnano computer science, biologia, matematica ed economia, corsi di laurea nei quali le università coreane non sono giudicate all’altezza. Il numero di studenti italiani che frequentano le migliori università americane è basso. È stimato essere non più di un trentesimo rispetto alla cifra della Corea del Sud.

Si sa quanto le famiglie italiane spendono per giochi e scommesse (modalità legali, ovviamente). Si sa anche quanto le famiglie vincono con quei giochi e scommesse. La differenza tra le due cifre è quanto le famiglie perdono ogni anno in giochi e scommesse. La cifra, pre-pandemia, era pari a 18 miliardi di euro l’anno. Mentre, come abbiamo visto, le scuole e le università italiane si collocano, per qualità e quantità di quanto insegnano, nella parte bassa delle graduatorie mondiali, l’Italia si posiziona addirittura quarta al mondo per valore assoluto delle perdite per giochi e scommesse. Si colloca in graduatoria subito dopo Stati Uniti, Cina e Giappone, Paesi con una popolazione e con un reddito molto superiore a quelli italiani, e prima assoluta in Europa (in Germania e Francia la perdita delle famiglie per giochi e scommesse è circa la metà di quella italiana). Di più. Gli italiani consumano il maggior numero di sigarette pro-capite rispetto a tutti gli altri grandi Paesi Europei. Sono altri 19 miliardi di spesa annua delle famiglie italiane. Aggiungiamo, sempre per l’Italia, la spesa per droghe e prostituzione stimata dall’Istat pari a 22 miliardi. Il tutto fa 59 miliardi. Se aggiungiamo ancora la spesa per sigarette di contrabbando e le perdite legate alle scommesse e ai giochi clandestini, superiamo largamente i 60 miliardi. La spesa annua dello Stato italiano per la scuola e l’università è appunto pari a 60 miliardi.

Se i soldi, come spesso succede, dicono più di mille parole, l’interesse complessivo della società italiana per la scuola è assai ridotto.

Giancarlo Lizzeri



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