5 aprile 2021

IL TEMPO SOSPESO DEL COVID

Un'occasione formativa per i giovani


Quale linguaggio proporre ai nostri giovani, come entrare nelle loro menti destando curiosità e passione al sapere? Ho raccolto, come scrittrice e docente, diverse esperienze all’interno delle classi di diverso ordine e abbiamo potuto constatare quanto il bisogno dei giovani verso l’approfondimento della vita sia cruciale e percepito fortemente, come i ragazzi abbiano bisogno di punti di riferimento. I nostri giovani devono sentire intorno a sé l’educatore autentico, la parola vera, l’esperienza umana di chi insegna, la passione di chi educa. Questi sono i primi segnali positivi a cui il docente deve legarsi perché la conoscenza dei propri giovani diventa sempre conoscenza anche del sé da parte dell’educatore.

scarpante

Le esperienze riscontrate ci comunicano che essere troppo rigorosi nell’educazione dei figli e addossare loro un eccessivo senso di responsabilità e di doveri, può essere devastante per la loro crescita. Il senso della naturale comunicazione verso gli altri, il senso di reciproca fiducia e disponibilità che se ne riceve, si affievolisce se l’educazione tende ad insistere troppo sugli obblighi personali e sul senso dell’approvazione famigliare e sociale.

Il giovane svilupperà eccessive aspettative sul “dover essere”, sul suo doversi “conformare a”, e si sentirà, pertanto, obbligato a nascondere le sue fragilità e debolezze, a venir riconosciuto e apprezzato per ciò che non è, ma mostra di essere. Così oltre ad alimentare nel giovane il senso di inadeguatezza, per ciò che da lui ci si attende, il vedersi sottoposto dagli adulti a continue verifiche gli produrrà un senso di incapacità, di sfiducia e di sottostima: un senso di colpa per pensieri e azioni che, per quanto naturali e sentiti, non sono approvati né razionalmente né affettivamente dagli adulti, genitori o altri che siano.

La scarsa accettazione di sé, così nata e mantenuta nel tempo, fa correre a questi figli il rischio di ritrovarsi in età adulta con una falsata percezione di sé, con un livello di autostima assai basso o contraddittorio. Il confronto dialettico e paritario con l’adulto, a maggior ragione se genitore, va sollecitato e incoraggiato da subito, affinché il giovane cresca sviluppando un forte senso critico e auto-critico, sia verso le sue opinioni/azioni e sia verso le opinioni e le azioni degli altri. Un sano ed equilibrato rapporto genitori-figli non può prescindere dalla risoluzione dei momenti di tensione, dal confronto leale e aperto nei momenti traumatici, quando maggiore e più sentita è l’espressione delle proprie esigenze.

La strategia dell’occultamento o dell’auto-repressione dei propri desideri (dei figli verso i genitori e viceversa), pur garantendo nel breve termine la pace domestica, sulla lunga distanza si mostra nociva per il corretto sviluppo psico-emotivo della persona. L’adulto, che nel corso della sua infanzia e gioventù non ha imparato a costruire la propria identità, avvalendosi anche di un confronto, in alcuni momenti, aspro e critico con i propri genitori – o con figure educative prossime – è assai più probabile che non sappia vivere correttamente le relazioni future, che si limiti a subirle “per non dispiacere” a nessuno, che per paura di sbagliare si trovi a castrare ogni sua legittima contrarietà o esigenza.

Meccanismi difensivi questi, che se da una parte salvaguardano la pace a tutti i costi, l’apparenza della relazione – con la persona amata, con gli amici, con i datori di lavoro, etc. – dall’altra alimentano rapporti di forza squilibrati, generatori di frustrazione e senso di inadeguatezza, più o meno profondi. La rigidità psicofisica del o dei genitori, vissuta dai figli come castrante, può alimentare nel giovane effetti auto-punitivi o di rivalsa aggressiva, dalle conseguenze gravi, a partire dalla compromissione – anche irrimediabile – del carattere positivo, gioviale e aperto del giovane.

Sulle difficoltà delle relazioni affettive ognuno di noi può vantare esperienze significative. Sono costituite da legami incerti, sfumati, non quantificabili, con errori teorici e pratici che tendono a ripetersi, quasi come se qualcosa ci costringesse a compiere il medesimo errore, ogni volta che riversiamo su chi ci è accanto aspettative e progetti nostri. Lasciare liberi gli altri in modo che capiscano, anche attraverso i propri errori, quale strada intraprendere è sempre un proposito e un’azione che ci richiede la massima attenzione e cautela, perché le parole che noi usiamo condizionano la vita degli altri.

Per conoscere meglio sé stessi imparando a conoscere l’altro è importante ricorrere al linguaggio dei sentimenti e delle emozioni, anche là dove la logica e la concretezza impongono scelte lucide e ragionate. Evitando i mugugni e le rabbie soffocate alla “papà e mamma” e investendo l’altro con la propria sincera disponibilità all’ascolto, impariamo ad esprimere direttamente ciò che proviamo, le sofferenze e le inquietudini senza nome che ci portiamo dentro.

La libera espressione dei sentimenti “negativi” provati – e troppo spesso taciuti per paura di ferire “ingiustamente” l’altro – vanno aiutati ad emergere, fin da loro primo insorgere. Affinché la rabbia, il rancore o l’angoscia trovino uno sbocco naturale – che eviti loro il dannoso effetto accumulo e il conseguente avvelenamento per eccesso di concentrazione interna – bisogna esternarli quanto prima, per aiutare l’altro a fare lo stesso. Solo così ciò che percepiamo o intuiamo come negativo può trasformarsi in un atto di fiducia e di reciproca e umana richiesta d’aiuto.

Come ben dimostrano molte testimonianze, e tutto il mio percorso formativo e di formazione per altri lo esplicita: le lettere ci servono per riprendere in mano la nostra storia, per costruire o ristabilire un dialogo fra chi scrive e l’interlocutore, per le possibilità che ci risvegliano. Grazie alla scrittura, quindi, sciogliamo nodi, entriamo nel vivo dei sentimenti, costruiamo un nuovo confronto, elaboriamo una sofferenza taciuta, chiediamo spiegazioni, motiviamo un nostro comportamento, spuntiamo la rabbia, addomestichiamo alcuni sentimenti, alleggeriamo il peso di una colpa, ci riconciliamo con chi ci ha fatto del male, chiediamo scusa per non aver saputo dire. E non solo: tra le righe indichiamo ancora altro di noi stessi, diamo spessore ed espressività al nostro sguardo assente, lasciando intuire l’inesprimibile. In tal modo ci autodeterminiamo diventando protagonisti della nostra vita e ci riempiamo di Senso.

La scrittura, dunque, rappresenta una forma di emancipazione, un serio contributo per costruire un domani di persone più appagate e consapevoli. Mi spingo a dire che la società intera ne beneficerebbe se la sua pratica si estendesse in tutti gli ambienti dove una donna o un uomo, sani o malati, in convalescenza o per costrizione, vengono ospitati o curati: nelle strutture sanitarie come nei centri di riabilitazione, nelle case di riposo come nelle carceri, nei circoli ricreativi come nei centri per anziani, nelle Scuole e nelle Università e via dicendo.

Attraverso la narrazione autobiografica, nostra o dell’altro, riusciamo a maturare molte fragilità, comprendiamo meglio come staccarci da relazioni affettive e sociali riduttive, non sottovalutando come ogni confronto leale, con noi stessi e con gli altri, ci maturi e ci aiuti a crescere in solidarietà e incapacità evolutive.

Blocchi interiori o emotivi che ancora oggi agiscono dentro di noi, alterando il nostro approccio corretto verso l’altro, riescono ad essere smascherati, seppure con grande sforzo introspettivo, grazie all’analisi scritta del nostro vissuto. Il senso di disorientamento che proviamo d’innanzi alle nostre passate esperienze, ora fissate sulla carta, sembra essere un passaggio obbligato per arrivare a rivelare a noi stessi fatti, ricordi, circostanze, situazioni da noi tenute sepolte per timore o perché ancora generatrici di ansie; momenti difficili che ritenevamo di aver dimenticato o risolto col passare del tempo; frustrazioni o sensi di colpa non più elaborati nel corso delle esperienze future; rabbie o rancori che, per quanto zavorrati in zone oscure dell’animo, ritornano a galla con o tra le righe, destabilizzandoci ancora con tutta la loro irruenza.

È preminente, in un percorso volto alla salute interiore, operare profondamente su se stessi per poter essere d’aiuto all’altro. Se, però, la figura dell’educatore già presenta deficit metodologici o culturali, allora diventa veramente difficile per l’allievo costruire un valido e proficuo percorso di conoscenza e di auto-coscienza.

Il bisogno espresso dai nostri figli, l’urgenza di migliorare le proprie condizioni di vita – per evitare il diffondersi della depressione e di altre piaghe sociali, tutte in aumento fra i giovani – ci obbligano a prendere in seria considerazione il momento storico in cui viviamo e l’esigenza di un radicale cambiamento, da affrontare tutti insieme, chiamando a raccolte competenze, professionalità, saperi e progettualità in grado di trasformare la o le crisi in altrettante opportunità di crescita.

Cruciale, tuttavia, resta il nodo dei conflitti dovuti alla scorretta relazione primaria genitori-figli e su questa va praticata continua formazione perché anche l’adulto cresca in consapevolezza e maturità attraverso l’esperienza del giovane che non è mai vuota o insignificante .

Sonia Scarpante



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