12 settembre 2019

LA GRANDE MADRE RUSSIA

Una perla al festival “MI.TO. Settembre Musica”


Nel panorama – a mio giudizio non esaltante – della programmazione del festival “MI.TO. Settembre Musica”, una perla è stato senza dubbio il concerto della Filarmonica della Scala che si è tenuto l’11 settembre (data fatidica) a Milano, agli Arcimboldi, e due giorni dopo a Torino; il programma prevedeva il Terzo Concerto in re minore opera 30 per pianoforte e orchestra di Sergej Rachmaninov (il mitico RACH 3) e la Sesta Sinfonia in si minore opera 74 – la cosiddetta “Patetica” – di Piotr Il’ič Čajkoskij. Totalmente immerso nella “Grande Madre Russia” al passaggio fra otto e novecento (un passaggio all’indietro, essendo del 1909 il Concerto e del 1893 la Sinfonia), il concerto è stato diretto da Myung-Whun Chung con Alexander Romanovsky al pianoforte.

Viola

Del Rach 3 si è detto e scritto molto, soprattutto in merito alla difficoltà “trascendentale” della parte per pianoforte (ricordate la storia del pianista David Helfgott, prima nel film Shine e poi nella sua vita reale?) che lo ha fatto diventare lo spauracchio dei Conservatori di tutto il mondo. A me questo concerto è sempre parso poco ispirato, molto più caratterizzato da un pletorico virtuosismo e dalla tecnicalità dello strumento piuttosto che da profonda ed intima poesia; tuttavia, nell’interpretazione di Romanovsky, questa musica ha rivelato una spontaneità e una sincerità raramente apprezzabili nelle esecuzioni più conosciute. Il trentacinquenne pianista ucraino sembrava averlo scritto lui quel concerto, godere intimamente nel suonarlo e nell’affrontarne le terribili asperità (come la lunga cadenza del primo movimento), manifestando almeno apparentemente una facilità e una leggerezza tali da consentirgli di non andare mai sopra le righe; sorprendente come quel tema dolce e pervasivo, che accompagna tutto il concerto, scorreva nelle sue mani come un ruscello fra montagne aspre e rocciose.

In una bella intervista rilasciata a Giuseppina Manin sul Corriere della Sera il giorno precedente il concerto, Romanovsky racconta di essere arrivato in Italia a tredici anni per continuare a studiare con il suo maestro – quando questi fu chiamato all’Accademia di Imola – e di aver iniziato a studiare il Rach 3 a sedici anni essendosi “subito trovato a suo agio”. L’altra sera, dopo l’indemoniato finale del concerto, è stato applaudito per un tempo interminabile, ha dovuto uscire otto volte e concedere due bis. Da non crederci. Ora è cittadino italiano ma vive in Svizzera, subito al di là del confine, perché in Italia “non hai modo per crescere, o sei subito una star o sarai sempre nessuno”. Temo che abbia ragione e che varrebbe la pena fosse ascoltato nei luoghi alti della politica anche se, detto da chi è venuto a godere della nostra scuola, può darci fastidio.

Orchestra, direttore e solista erano meravigliosamente fusi in uno di quei magici momenti di grande poesia che non è mai facile creare e Myung-Whun Chung, che nella prima parte del concerto si è attenuto con grande eleganza e raffinatezza al corretto ruolo di sostegno e di accompagnamento al solista, ha poi affrontato la Patetica čajkoskiana con una invidiabile padronanza della partitura e della stessa massa orchestrale. Proprio in questi giorni, come si sa, festeggiava i trent’anni di collaborazione con la Filarmonica e davanti alla torta con le candeline disse “Questa orchestra mi ha aiutato molto fin da quando sono arrivato la prima volta sul podio, ero giovane, trent’anni fa; per la precisione aveva trentasei anni, gran parte dei quali trascorsi come assistente di Carlo Maria Giulini e poi come direttore associato alla Los Angeles Philarmonic. Da Giulini ha ereditato il gesto essenziale, controllatissimo, direi quasi minimale che viene tanto apprezzato dalle orchestre e lo fa amare anche dal pubblico.

Anche in occasione del capolavoro sinfonico di Čajkoskij, la Filarmonica scaligera ha assecondato Chung in modo verrebbe da dire commovente: tanto il primo movimento era languido, quasi esangue (con quel tema così inquieto e struggente), quanto è stato sereno il secondo, l’”Allegro con grazia”, e guerresco e potente il terzo, che sembra anticipare la Leningrado di Šostakóvič. Con l’”Adagio lamentoso” che conclude la sinfonia, orchestra e direttore in perfetta simbiosi sono riusciti a fare strame dei gratuiti e stucchevoli significati che sono stati dati a questo capolavoro nei suoi centovent’anni di vita.

A questo proposito la bravissima Gaia Varon, nella breve introduzione al concerto (brevità sempre molto ammirevole in epoca di sproloqui), aveva spiegato quante cose sciocche siano state dette e scritte per voler fare discendere quest’opera dalla complicata vita del suo autore, suggestionati dal fatto ch’egli sia morto pochi giorni dopo averla ultimata e dopo averne diretto a Pietroburgo la prima esecuzione assoluta (6 novembre 1893). Si è associato ad essa la possibile vergogna per un’omosessualità non accettata dalla società russa di allora, la paura per la denuncia di una nuova relazione, imbarazzante e socialmente pericolosa, la depressione che lo ha accompagnato per molti dei cinquant’anni che gli è stato concesso di vivere (era nato nel 1840), per non parlare del mistero di quella morte (suicidio? spontaneo? imposto da terzi? contagio del colera? ahimè non lo sapremo mai…). Ma che c’entra tutto ciò con l’equilibrio miracoloso di questa sinfonia, con quattro movimenti tanto differenziati fra loro da escludere un’unica ispirazione ed un univoco stato d’animo? La Varon giustamente suggerisce di ascoltarla per quello che è, di goderne i temi meravigliosi e le sorprendenti armonie senza farsi suggestionare dalla biografia dell’autore. Così infatti l’ha proposta Myung-Whun Chung e così l’abbiamo accolta noi con grande emozione.

Paolo Viola



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