31 maggio 2019

L’HAMBURGER SENZA CARNE PER SALVARE IL PIANETA

Cibo e futuro: la startup Impossible Foods a quota 4 miliardi di dollari


All’ultimo Consumer Electronics Show di Las Vegas, nei primi giorni di questo 2019, uno dei prodotti tecnologici più ammirati da investitori e tecno-entusiasti di tutto il mondo è stato un hamburger. Accanto a schermi arrotolabili, robot umanoidi e taxi a guida autonoma – ovvero tutto quello che ci si aspettava di trovare al CES – per la prima volta ha fatto irruzione la carne-non-carne, un hamburger «impossibile», prodotto da Impossible Foods, una startup in cui Bill Gates ha investito 75 milioni di dollari e il cui valore a maggio 2019 ha sfiorato l’incredibile quotazione di quasi 4 miliardi di dollari.

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A partire da quest’anno i burger di Impossible Foods saranno nei menu di alcune delle principali catene di fast food negli Usa: la «neo-carne» è fatta di grano, olio di cocco, patate. Sembra la classica composizione di quegli hamburger vegani un po’ stopposi che tanti locali propongono ma chi l’ha assaggiato assicura che “sanguina” e sa di carne come un hamburger vero. L’ingrediente segreto che rende possibile tutto ciò si chiama eme, e un complesso chimico contenente un atomo di ferro presente anche nel sangue animale e umano. L’eme geneticamente modificato ed estratto dalle piante viene lavorato in laboratorio, purificato, distribuito. Con questo ingrediente segreto «Impossible Food intende soppiantare il ciclo della carne entro il 2035», hanno detto i suoi fondatori.

Se l’affermazione può far sorridere (o tremare – un po’ come la previsione sulla fine dei giornali stampati) il successo di Impossible Foods non sembra per nulla fragile: il suo hamburger, cui si aggiungerà presto una neo-salsiccia, emette – se ci fidiamo della dichiarazione dell’azienda – l’87 per cento di gas serra in meno rispetto a quelli originali e utilizza il 75% di acqua in meno. In attesa dello sbarco in Italia, a Monza e Bologna si può già assaggiare l’hamburger di carne-non-carne del concorrente Beyond Meat.

Se l’innovazione più impattante nel mondo del cibo arriva dagli Stati Uniti, che a tradizione culinaria tanto bene non stanno, la domanda nasce spontanea: poteva nascere un Impossible Burger nella patria della Fassona e della Chianina? Probabilmente no, ma quella che ci arriva da Oltreoceano è una lezione che può dirci tanto. Sui trend innanzitutto: popolazione mondiale in aumento, acqua come risorsa a rischio, insostenibilità di allevamenti intensivi ma anche di monocolture come soia e riso. Il futuro prevede una democratizzazione del cibo e questa passa anche per soluzioni che diano a tutti gusto, vitamine e proteine in giusta quantità.

L’altro messaggio sotteso è che abbiamo bisogno di far uscire in fretta la food innovation dall’equivoco tutto italiano che questa abbia a che fare con il bucolico ritorno alla campagna dei giovani avvenuto in questi anni. Fenomeno sociologicamente, e anche filosoficamente, interessante, persino condivisibile, che però ha poco a che fare con le direttrici di sviluppo di un Paese che vuole rimanere grande. Il food tech, ci dice la storia dell’hamburger impossibile, è innanzitutto biotecnologia, laboratori, materie prime replicabili e, ovviamente, catene distributive.

Se gli ingredienti sono questi, Milano ha sicuramente un ruolo di primo piano a livello europeo. Che l’onda lunga di Expo continui a gemmare iniziative sempre più solide è sotto gli occhi di tutti: una fiera internazionale come Seeds & Chips, un nuovo campus dedicato al food, laboratori e centri di ricerca (aspettando Human Tecnopole), un grande fermento di startup che lavorano a vario titolo nel food. In realtà, proprio quello delle startup italiane – forse schiacciate da tradizione e attese – sembra l’anello più debole. La maggioranza sembra concentrarsi al momento sulla catena distributiva e sull’accompagnamento al digitale.

Vere e grosse novità non se ne vedono. L’allevamento e la vendita di insetti commestibili, dall’anno scorso ammessa in tutta Europa, in Italia non decolla e le poche startup attive rimangono pioniere abbastanza isolate. E mentre si parla di Foodora e Just Eat, che sono aziende di logistica più che di food, segnaliamo Eva, ideato da Antonio Pagliaro, un mini oleificio domestico che solo un italiano di origini calabresi poteva inventarsi; This Is Not a Sushibar, galassia Nuvolab, una catena di sushi che ha raggiunto la notorietà e il successo anche per l’iniziativa di regalare (o scontare) i piatti in base ai follower del cliente; CarboGang, un’impresa lanciata da quattro studenti universitari che fanno arrivare un box con tutti gli ingredienti dop per realizzare una carbonara perfetta; Robonica, una startup milanese che produce box per la coltura idroponica in casa o ufficio.

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Poi c’è Pcup, che affronta il tema del beverage nei grandi eventi dal punto della sostenibilità e dei dati: bicchiere in silicone riutilizzabile, al posto di quelli in plastica usa e getta, e un microchip integrato per i pagamenti. Con una campagna di equity crowfunding polverizzata in cinque giorni. Poi Orthoponics, una startup torinese che costruisce moduli per l’agricoltura urbana verticale, e Korto, che dà la possibilità di adottare un orto e ricevere a casa i prodotti; 3bee, di Como, fa lo stesso con gli alveari. Nell’agricoltura di precisione poi si muovono in tantissimi: a Bologna Horticultural Knowledge ha lanciato un prodotto, Perfrutto, per assistere i frutticoltori nell’ottimizzazione delle proprie scelte agronomiche. A Milano, in e-Novia, BluAgro ha sviluppato un sistema di nuova generazione per il monitoraggio in tempo reale dello stress idrico e termico delle piante, che supporta l’agricoltore in quel che sa far meglio: prendersi cura delle coltivazioni.

Insomma, tanto movimento, ma niente che ancora mostri di poter rivoluzionare il mercato. Eppure i soldi, in teoria, ci sono. Gli investimenti in venture capital nel settore agrifood a livello mondiale hanno registrato un incremento costante negli ultimi cinque anni, passando da 3,08 miliardi di euro nel 2014 ai 14,3 miliardi registrati nel 2018. Non in Italia, dove l’agroalimentare contribuisce al 15% del Pil ma gli investimenti ammontano a solo l’1% del totale investito in Europa in venture capital nel settore. A nuove grandi aziende stiamo letteralmente a zero: negli ultimi 10 anni a livello globale sono nate 35 aziende foodtech che ora hanno un valore superiore al miliardo di euro e 9 di queste hanno sede in Europa. In Italia ancora nessuna. L’ultima ex startup di questo tipo nel nostro Paese è forse la … Ferrero.

Anche gli ultimi finanziamenti registrati nel settore sono tutti concentrati sulla distribuzione: Soul K che produce e consegna piatti pronti pensati per la ristorazione veloce e semilavorati per ristoranti, hotel, catering, ha appena raccolto 1,6 milioni. Anche FrescoFrigo ha appena chiuso un round da 1,2 milioni di euro: il progetto di Enrico Pandian punta a produrre vending machine a chilometro zero che distribuiscono cibo fresco di alta qualità. In questo scenario Davide Dattoli, il fondatore di Talent Garden, ha appena annunciato la creazione del primo campus dedicato al Food e alla sostenibilità per ospitare duecento talenti nel palazzo di Regione Lombardia: startup, aziende, incubatori, investitori. Iniziativa lodevole, ma non so se sarà un nuovo coworking a risolvere la situazione.

La grande distribuzione, quella dove ora i prodotti italiani trovano un canale troppo frammentato, chiederà presto certificazioni di qualità e tracciabilità che hanno più a che fare con i laboratori di Impossible Foods che con gli allevamenti che conosciamo. Tanti rischiano di andare fuori mercato se non si attrezzano in fretta per capire come farsi aiutare dalla blockchain.

Da Milano nelle giornate di sole si ha una grande fortuna: le Alpi, quelle che nelle Olimpiadi 2026 torneranno protagoniste, ricordano che a pochi chilometri esiste ancora una natura incontaminata e selvaggia dove le mucche mangiano erba vera non geneticamente modificata e producono latte fresco ancora non replicabile. Miliardi di persone aspirano a godere di qualcosa di simile. I centri di ricerca non mancano, l’attenzione di scienziati e biotecnologi si sta rivolgendo a capire quale sia il segreto, l’eme dei pascoli alpini. Che l’ispirazione venga da lì?

Luca Barbieri
luca.barbieri@blum.vision



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