25 aprile 2019

LA REALTÀ DEL LAVORO

I dati son impietosi, i rimedi incerti


Una tensione politica sempre più evidente, ma che non sbocca in una crisi a tutti gli effetti; nostalgie filo-fasciste e rigurgiti di intolleranza, anche razziale, che macchiano, con una frequenza inquietante, lo scenario del Paese; un senso diffuso di spiazzamento e disagio che si coglie nell’opinione pubblica frastornata tra i segnali ricorrenti di avanzata della recessione e la pioggia di messaggi rassicuranti (ma non per questo convincenti) dei governanti : quest’anno l’Italia giunge all’appuntamento del Primo maggio in uno stato di incertezza che trova pochi precedenti nella sua storia recente.

Non sorprende perciò che il lavoro, che in questo giorno si dovrebbe festeggiare, divenga, invece, soprattutto il destinatario delle speranze e, ancor più, delle preoccupazioni di tanti cittadini.

SWG, la società di sondaggi triestina, ha di recente diffuso una classifica aggiornata dei timori degli italiani. In cima alla lista di ciò che provoca maggiore spavento, più in alto della risposta: “il futuro del Paese”, troviamo quella che afferma: “la mancanza di lavoro” e, al quinto posto di questo triste elenco, “la possibilità di perdere il lavoro”.

Duva

Sono dati che mettono in luce – osserva Roberto Arditti, riprendendo questa ricerca sul suo “Barometro Kratesis” – come nel nostro Paese si stia diffondendo la convinzione che i prossimi anni saranno caratterizzati da processi di innovazione tecnologica destinati a tradursi, in assenza di scelte adeguate, anche in fattori di “disoccupazione tecnologica”.

Ma è proprio questo aspetto – il governo dei processi di innovazione non solo dal punto di vista economico ma sotto il profilo politico-sociale – che un’area vasta dell’opinione pubblica ritiene insufficiente. Lo si rileva da un altro dato che emerge dalla ricerca SWG: è a partire dal 2008 – l’anno del fallimento della Lehman Brothers e del dilagare della crisi dagli Stati Uniti all’Europa – che in Italia il numero di quanti riteneva che il Paese si stesse modernizzando ha cominciato ad essere inferiore a quello di quanti, invece, erano convinti che il Paese stesse regredendo.

Non è andata sempre così: per un ventennio, dal 1997 al 2007, la sensazione prevalente è stata quella di una Italia che, sia pure tra limiti e ritardi, si andava modernizzando. Poi il trend si è invertito e il “senso di regressione”, secondo le rilevazioni SWG, ha guadagnato (con l’eccezione del biennio 2015-2016) sempre più terreno sino a toccare, nel 2017, un divario pesante, con la pattuglia dei convinti della modernizzazione ridotta al solo 28% del campione. Si tratta di un segnale poco rassicurante, anche se i timori che mette in luce non sembrano privi di fondamento.

Appena due settimane dopo che i dati del sondaggio più sopra citato fossero resi noti, l’Ocse, l’organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico con sede a Parigi, ha diffuso il suo “Employment Outlook” per quest’anno: un rapporto che contiene indicazioni significative anche per l’Italia.

Il futuro del lavoro, secondo gli esperti dell’Ocse, va inquadrato in un contesto mondiale segnato essenzialmente da globalizzazione e automazione. A causa, soprattutto, dell’effetto congiunto di questi due fattori nei prossimi anni si verrà a configurare una situazione nella quale le innovazioni tecnologiche, il progresso della robotica e le applicazioni della intelligenza artificiale peseranno sempre di più e in un ambito sempre più vasto: i riflessi saranno molto forti sulla distribuzione del reddito, sui comportamenti sociali e sullo stesso modo di lavorare.

“Una stagione di trasformazioni profonde”, sintetizza Angel Gurrìa, l’economista messicano che guida l’Ocse, “che come tutte le rivoluzioni presenta grandi opportunità ma rischi altrettanto profondi”.

Nel nostro Paese, in un arco di 15-20 anni, oltre il 15% del totale dei posti di lavoro diventeranno, prevedono gli esperti dell’Ocse, “ad alto rischio di automazione”, quindi potenzialmente sopprimibili. Nel rapporto c’è anche un’altra stima che merita grande attenzione: oltre il 35% dei posti di lavoro “potrebbe subire sostanziali cambiamenti nel modo in cui vengono svolti: questi posti di lavoro rimarranno ma con mansioni molto diverse da quelle attuali”.

Il messaggio lanciato dall’Ocse non vuole essere allarmistico: il documento considera “improbabile un forte calo dell’occupazione complessiva” poiché si avanza l’ipotesi che, a fronte dei posti distrutti, altri potrebbero nascere proprio per effetto del cambiamento tecnologico. Si afferma però, con nettezza, che: “la transizione non sarà facile”.

Il mondo del lavoro che si appresta a celebrare il Primo Maggio la sua festa ha già di fronte problemi da tempo scottanti. A cominciare dal drammatico livello della disoccupazione giovanile, specie nel Mezzogiorno, e dalla esigenza di consolidare i diritti di chi si trova in quella “zona grigia” fra lavoro occasionale e continuativo o fra attività autonoma o subordinata. Un tema questo che non può essere risolto con promesse avventate o irrealistiche, come si sta vedendo dal riemergere aspro della vertenza dei riders.

Si aggiunge ora l’urgenza di fare i conti con gli effetti dell’innovazione tecnologica. E questo porta bruscamente in primo piano una fragilità “storica” della realtà italiana: la debolezza del suo sistema formativo. Anche i dati recenti confermano che il nostro sistema di formazione permanente è del tutto inadeguato rispetto ai profondi e rapidi cambiamenti che segnano oggi l’attività produttiva.

Solo il 20% degli adulti risulta aver preso parte a programmi di formazione professionale nell’anno precedente alla rilevazione dell’Ocse, mentre appena il 60% delle imprese con almeno 10 dipendenti offre programmi di formazione continua ai propri dipendenti: vale a dire il 15% in meno rispetto a quel che accade nella media degli altri paesi europei. Combattere questa fragilità è oggi perciò una esigenza non più rinviabile.

Il governo Conte ha invece concentrato impegni e risorse in altre direzioni: reddito di cittadinanza e modifiche del regime pensionistico. Provvedimenti entrambi che hanno destato diffuse riserve, non solo nel nostro Paese. Il tempo dirà se la scelta operata dall’esecutivo è stata efficace e, aspetto non meno decisivo, sostenibile per conti pubblici.

Intanto vale la pena di ricordare, come documenta un accurato saggio dell’economista milanese Marco Leonardi (“Le riforme dimezzate”) che nel quadriennio 2014-18 i governi Renzi e Gentiloni hanno portato avanti un consistente complesso di interventi nel campo del lavoro. Non sono mancati – come da onesto studioso rileva Leonardi – ritardi, limiti ed errori; ma questa azione, nel complesso, si è svolta assicurando la stabilità fiscale e attraverso un coerente sforzo riformatore. Con risultati, in materia di lavoro, ben visibili: se si pone a confronto il 2008 e il 2018, si vede che, malgrado un volume mediamente in contrazione, rispetto all’inizio della crisi, della produzione industriale e degli investimenti, l’occupazione, rispetto alla stessa data, ha invece tenuto.

Oggi, per difendere e migliorare i livelli di occupazione, non si può fare a meno di puntare perciò soprattutto sulla crescita. Sembra invece prevalere una visione statalistico – assistenziale che si intreccia, pericolosamente, con il diffondersi di uno spirito pregiudizialmente anti-industriale.

In un clima del genere la legittima preoccupazione di misurarsi costruttivamente con l’avanzata dell’innovazione potrebbe scadere in irrazionale “tecnofobia”, come in un volume recente denuncia incisivamente il segretario della Fim- Cisl, Marco Bentivogli. Ma una simile deriva non sarebbe davvero di aiuto né al lavoro né all’Italia. E su questo appare utile riflettere a fondo, anche nell’occasione di questo Primo maggio.

Antonio Duva



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