8 aprile 2019

PROBLEMI DI SISTEMA: IL COSTO DEL PRECARIATO UNIVERSITARIO

I sottopagati in un Paese di sottopagati


Studiare per vivere, insegnare per guadagnare. Niente di assurdo è presente nelle parole precedenti. Eppure, oggi ciò che accade, a chi fa del suo interesse accademico un lavoro, un po’ assurdo lo è. Perfezionato lo studio, spesso con un dottorato di ricerca, il futuro professore universitario si condanna ad anni di incertezza, a spostamenti continui da università in università, a una logorante difficoltà economica.

Chi sceglie di voler trasmettere il proprio sapere davanti a una cattedra, in Italia, va inevitabilmente incontro a due ostacoli: la gabbia della scalata professionale all’interno di un ateneo e la costrizione a vivere molti anni con salari ridicolmente bassi. In Italia, un docente a contratto guadagna tra i 4,28 e i 17,14 euro ora lordo di 60 ore e tra i 3,75 e i 15 euro ora lordo per un corso di 30 ore.

Immergersi così violentemente nel mondo del precariato universitario, oltre ad essere alquanto frustrante, potrebbe creare confusione. Facciamo ordine.

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Negli atenei del nostro paese i lavoratori sottoposti a queste condizioni sono circa 83.000 tra ricercatori a tempo determinato, assegnisti, borsisti, dottorandi, docenti a contratto. E proprio questi ultimi rappresentano la categoria più critica, più complessa e spesso dimenticata. Esclusi dal personale strutturale delle Università, sono figure assunte a tempo determinato per svolgere attività didattiche continuative all’interno di un corso di laurea

Attualmente i docenti a contratto sono 26.162, secondo il Coordinamento Nazionale Precari della FLC – CGIL, e costituiscono un caso di precariato tanto perverso da sembrare contraddittorio con la sua natura originaria. Quelle che inizialmente erano figure professionalizzanti, chiamate dagli istituti per dare una inclinazione meno teorica e più vicina al mondo lavorativo, sono state infine fagocitate dalla macchina istituzionale stessa, che le ha relegate a contrattisti “tappa buchi”, ricoperti di mansioni curriculari e privati di salari generosi.

In molti si sono interessati ed hanno esposto questo drammatico caso, da giornalisti di noti quotidiani nazionali fino a chi ha vissuto e vive ancora in prima persona questa situazione. Sicuramente una delle voci più ascoltate in materia è quella di Barbara Grüning, ricercatrice di Sociologia all’Università Bicocca di Milano. L’allarme lanciato dalla docente assume con la stessa gravità diverse forme d’intervento: dalle analisi e proteste sindacali, con il FLC – CIGL in prima linea, alla creazione di una rete di precari volta a sensibilizzare e unire chi vive questa situazione in tutta Italia.

Foto Roberto Monaldo / LaPresse08-09-2010 RomaInterniP.zza Montecitorio - Manifestazione di protesta dei precari della scuolaNella foto Un momento della manifestazioneFoto Roberto Monaldo / LaPresse08-09-2010 RomeProtest of the school's precariousIn the photo A moment of demonstratio in front of House of Representatives

È proprio la professoressa Grüning a spiegarci nel dettaglio la situazione, a partire dal nodo salariale. Lo stipendo garantito ad un docente a contratto varia da ateneo ad ateneo, ma per legge ogni ora di lezione frontale in aula deve essere pagata da un minimo di 25 a un massimo di 100 euro, a discrezione del dipartimento. Il problema della precarietà si intreccia con quello dello sfruttamento economico nel momento in cui, a livello sia normativo che dipartimentale, nessun pagamento è previsto per gli esami, il ricevimento studenti, le mansioni amministrative, il lavoro di tesi richiesto. Da qui esce la scandalosa cifra riportata in molti giornali, e anche a inizio di questo articolo.

Tenendo a mente tale possibile composizione lavorativa dell’orario (lezione, pratiche amministrative, tesi, appelli ed esami…), solo il 18% del lavoro effettivo riguarda la lezione frontale, unico aspetto ad essere formalmente pagato. È qua che si inceppa goffamente il meccanismo. I docenti a contratto vengono pagati per 1/5 delle loro ore di lavoro. Il carico diventa maggiore tanto più sono gli studenti da esaminare: nel 2017 i docenti a contratto hanno sostenuto in media 19 appelli d’esame per un complessivo di 109 studenti. Ulteriore problema è il lavoro fuori termine contrattuale: essendo il contratto limitato ad un anno, vi saranno spesso attività da proseguire ed ultimare fuori termine. Per la precisione questa cifra riguarda circa il 60% dei docenti a contratto.

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Che cosa stabilisce dunque che un docente universitario guadagni così irragionevolmente poco. Per capire il problema ne va colta la radice. Quella dei docenti a contratto risale al 1980, anno in cui la categoria viene inserita negli atenei italiani. Da qui in poi il viaggio attraverso le norme statali si fa impervio e sfiduciante: sarà il decreto MURST del ’98 a compiere il primo passo verso il malsano presente. Infatti, con il decreto legislativo 242/Berlinguer del 1998 si prevede la possibilità per gli atenei di stipulare contratti annuali e rinnovabili al massimo per sei anni. Ingenuamente, si entrerà nel ’99 con la concessione di ulteriore libertà amministrativa alle Università: inizia il 3+2, con crescita esponenziale dei corsi di laurea. La situazione dei docenti a contratto subisce qui il primo drastico colpo: passano da essere categoria protetta, destinata a fini professionalizzanti, a professori che si occupano di attività curriculari.

A far peggiorare le condizioni sarà la in questo caso la riforma Moratti, che disciplina nuovamente la materia con la legge 230/2005, rendendo gli incarichi anche a titolo gratuito. L’abuso della docenza a contratto non verrà risolto nemmeno da un nuovo intervento normativo, ossia la Riforma Gelmini del 2010, che anzi andrà sì ad eliminare la docenza gratuita, creando però una gerarchia discriminante all’interno della categoria professionale stessa. L’art. 23 evidenzia differenti trattamenti economici da destinare ai docenti a contratto a seconda della loro appartenenza a determinate categorie: i lavoratori autonomi o dipendenti con reddito superiore ai 40.000 euro l’anno; i docenti stranieri di chiara fama; la parte restante, che subisce il trattamento economico discrezionale visto sopra.

Al fine di questo cammino normativo, si constata facilmente la divisione netta tra docenti di classe A e docenti di classe di B, dove i secondi dipendono soprattutto dalla disponibilità finanziaria dei singoli atenei, variabile anche a livello regionale, con picchi nelle Università del Nord (dai 45 euro/lezione della Bicocca ai “virtuosi” 80 di Trento) fino al minimo del meno finanziato Sud (mediana di 25 euro/lezione).

Questo caso esemplare, nel senso più negativo del termine, di precariato intellettuale andrebbe studiato ancora più a fondo. Andrebbe riportato alla luce ancora più frequentemente. Andrebbe persino analizzato di città in città. Se si pensa che solo nel grande polo universitario di Milano i docenti a contratto sono in totale 2.333 donne e 3.416 uomini, una “masochista” curiosità di approfondire il tema su scala locale cresce spaventosamente.

Giulio Ucciero

Fonti:
La Stampa (https://www.lastampa.it/2017/11/17/italia/atenei-la-rivolta-dei-docenti-a-contratto-facciamo-didattica-pagati-euro-lora-df47ZUIv4GhE6wLgSO0UmJ/pagina.html)
La Repubblica (http://www.inchiestaonline.it/scuola-e-universita/ilaria-venturi-luniversita-sulle-spalle-dei-docenti-a-contratto-pagati-7-euro-allora/)
Colloquio con Barbara Grüning.

Dati:
FLC – CIGL (http://www.flcgil.it/sindacato/documenti/approfondimenti/indagine-sul-precariato-universitario-stesso-lavoro-stessi-diritti-perche-noi-no.flc)
ISTAT
MIUR



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