7 marzo 2021

A SINISTRA L’UNIVERSITÀ ITALIANA PIACE COSÌ COM’È

Il Paese delle rane bollite


Mi ha sempre fatto specie il buon nome di cui godono sui media italiani le nostre università. Da tempo non c’è quasi articolo di giornale che ne parli se non bene e se non per citare fatti positivi. Eppure, non certo per sola colpa propria, l’università italiana è uno dei maggiori fattori del mancato sviluppo italiano degli ultimi 30 anni.

Solo per questo mi par giusto riprendere quanto sostiene la ricerca “Italia e la sua reputazione: l’Università”, effettuata sotto l’egida dell’Associazione italiadecide. Di questa associazione fan parte persone di notevole caratura e di varia estrazione politica e professionale. Essa gode inoltre del supporto delle nostre due banche maggiori e di parecchie grandi imprese (quasi tutte imprese di Stato). Ma essa è nella sostanza espressione del filone storico della sinistra italiana: Anna Finocchiaro (PD) ne è Presidente, Luciano Violante (PD) ne è presidente onorario e Oriano Giovanelli (LeU) ne è direttore esecutivo. Ed è per questo (solo per questo) che conviene prendere sul serio quello che la ricerca sostiene.

La ricerca è stata effettuata da Domenico Asprone, Pietro Maffettone, e Vincenzo Alfano, tutti dell’Università Federico II di Napoli e da Massimo Rubechi, dell’Università di Urbino. Gli autori contestano soprattutto il voto dato all’università italiana in classifiche che vengono universalmente utilizzate, classifiche stilate da parte di due società britanniche (Times Higher Education e QS) che da anni fanno questo di mestiere.

I quattro docenti lamentano, un po’ come lamentano tanti studenti dopo un esame andato male, la parzialità del professore. Se si aggiungesse, come sarebbe stato opportuno fare, una terza classifica pure universalmente utilizzata (Academic Ranking of World Universities, redatta dall’Università Jiao Tong di Shanghai), i professori da contestare sarebbero tre. E danno tutti e tre, pur con metodologie diverse, più o meno gli stessi bassissimi voti alle università italiane. Tornerò tra poco su questo.

1. Le graduatorie che contano sul serio

La cosa che più sorprende è la scelta delle classifiche che i quattro docenti hanno ritenuto opportuno contestare. Ci sono altre graduatorie, basate su numeri e non su opinioni, che non lasciano molti dubbi su dove si colloca, in graduatoria, l’università italiana. Ne cito alcune:

  • Statistiche ufficialissime dicono che l’Italia spende per l’università molto meno di moltissimi altri Paesi, distacco che si va accentuando ogni anno che passa. L’ultimo dato disponibile vede l’Italia spendere lo 0,9% del proprio PIL per l’università, il 40% in meno rispetto alla media dell’1,5% dei 37 Paesi dell’OCSE.

  • Corrispondentemente l’Italia ha una percentuale di laureati, sia complessivamente che relativamente alle fasce più giovani, di gran lunga minore rispetto a tutta l’Europa. Nella fascia dei giovani tra 25 e 34 anni l’Italia conta 28 laureati su 100 persone, contro 56 in Irlanda, 51 in Gran Bretagna, 47 in Francia, 44 in Polonia e in Spagna e 33 perfino in Turchia.

  • Oggi l’età media del corpo docente nell’università italiana è di 53 anni; i docenti (inclusi i ricercatori a contratto ed a tempo determinato) con meno di 40 anni in Italia sono il 15 per cento, contro il 30 per cento in Francia e Inghilterra e il 45% in Germania.

  • Nell’università italiana un numero altissimo di studenti abbandona gli studi e gli studenti fuori corso sono un numero altrettanto elevato. Non esistono paragoni ufficiali con altri Paesi, ma si sa che l’università italiana eccelle in queste poco eleganti caratteristiche.

  • I titoli di studio emessi dalle università italiane hanno tutti lo stesso valore legale. La laurea ottenuta presso l’università telematica e-campus (di proprietà del famigerato CEPU) ha lo stesso valore legale della laurea ottenuta presso la Statale di Milano e la Sapienza di Roma. Questo induce troppi studenti e tanti professori a concepire l’università solo come una sequenza di salti ad ostacolo per ottenere un titolo di studio che permetterà di ambire al classico posto fisso nelle carriere della pubblica amministrazione.

  • Nelle università italiane ci sono pochissimi studenti stranieri. Di quei pochi, quasi nessuno proviene da altri Paesi europei. E non ha quasi docenti stranieri. Con pochissime eccezioni la nostra università è quindi ancora profondamente autarchica. Per contro sono migliaia gli studenti italiani che ogni anno scelgono di studiare presso università all’estero.

  • Per quanto riguarda invece i docenti italiani in università straniere, apro una parentesi personale. Mio figlio Alessandro si è laureato anni fa in Bocconi. Appena laureato ha vinto una borsa di studio della Chicago University (settima miglior facoltà di economia al mondo, secondo le suddette graduatorie) e poi della Northwestern University (13ª). Preso il Ph.D. alla Northwestern, a 29 anni era assistant professor alla Princeton University (5ª in graduatoria). A 35 anni era in cattedra alla New York University (12ª). Di recente è tornato a insegnare a Princeton (sempre 5ª in graduatoria). Mio figlio è probabilmente bravino. Ma è uno di tanti. Nelle sole prime 20 facoltà di economia al mondo ci sono decine di giovani professori italiani. Lo stesso accade più o meno in tutte le discipline accademiche. Eppure, con pochissime eccezioni, le nostre università non sono affatto interessate a richiamare in Italia le centinaia di docenti italiani che insegnano all’estero in università di prima o di seconda fila.

  • Pochissime università italiane offrono corsi di laurea in inglese. A confronto, l’elenco dei corsi di laurea offerti in lingua inglese da parte delle università olandesi riempie decine di pagine. E quindi il medico e l’ingegnere olandese si laureano con un passaporto linguistico che permette loro di lavorare in decine di Paesi. Non così per gran parte dei laureati italiani.

2. Beati gli ultimi?

Con questi fardelli negativi sulle spalle è difficile presumere che una buona parte delle università italiane sia in grado di tenere il passo con analoghe università in altri Paesi. Il testo della ricerca sponsorizzata da italiadecide si spreca invece nel dire che se anche nessuna università appare tra le prime 150 al mondo (salvo il Politecnico di Milano, che appare in 137ª posizione secondo la graduatoria QS) è importante riscontrare che il 40% delle università italiane comunque si colloca tra le prime mille al mondo. Questo fatto significa, secondo quella ricerca, che l’università italiana offre una qualità media dell’istruzione universitaria che non è poi così male.

I quattro docenti incorrono quanto meno in un errore di omissione. Quello di ignorare che nelle prime 100 università di quelle classifiche viene effettuato il 90% della ricerca universitaria che conta. Non solo o non tanto perché quelle università sono la casa di quasi tutti i Nobel scientifici degli ultimi 30 anni (i due soli Nobel scientifici italiani in 30 anni, Capecchi e Giacconi, lavorano all’estero da sempre). Ma soprattutto perché alcune di quelle università hanno cambiato la geografia economica del mondo (vedi Stanford ed MIT), altre hanno cambiato la geografia dell’area regionale circostante (California Institute of Technology, Duke, Cambridge, Politecnico di Zurigo ecc.).

Altre ancora hanno cambiato la faccia della città in cui risiedono. Sarebbe bello se La Sapienza di Roma o la Federico II di Napoli fossero in grado di pareggiare almeno quello che sta facendo oggi la poco nota università di Manchester: quell’università è diventata il perno di una profonda rivitalizzazione del centro storico della città grazie alle risorse (oltre 2 miliardi di sterline) che è stata in grado di mobilitare a seguito della sua attività di ricerca scientifica.

A questo si aggiunge l’errore di considerare le prime 150 università al mondo tutte università di élite. Alcune lo sono (ed esserlo non è necessariamente un male). Ma una istruzione universitaria di livello molto elevato a costi paragonabili a quelli delle nostre università è offerta da almeno la metà delle prime 150 università. Ad esempio da gran parte delle università dell’Olanda, della Svizzera e della Svezia. Paesi che piazzano tra le prime 150 università al mondo la maggioranza delle loro università. In Olanda in particolare ben 9 su 13 università si collocano tra le prime 150. Non solo l’Università di Amsterdam, ma anche quelle di Leiden, Eindhoven, Delft, Utrecht, Nimega, Maastricht ecc., tutte città dove le élite non sono di casa. E le università del Regno Unito non sono solo Cambridge e Oxford. Nell’elenco delle prime 150 università ci sono anche università di città con tradizioni operai o popolari come Glasgow, Leeds, Manchester, Southampton, Bristol ecc..

Ma forse il fatto che in Italia le eccellenze universitarie si contino su poche dita non è l’aspetto più rilevante. L’aspetto più grave è lo spreco di risorse: il numero altissimo di studenti iscritti che abbandonano gli studi universitari e quello altrettanto elevato di studenti fuori corso, le decine di facoltà che indirizzano gli studenti verso un mercato del lavoro che non esiste più (facoltà ad indirizzo giuridico e linguistico-letterario, soprattutto), un corpo docente troppo anziano e tanta attività che si appiattisce nella erogazione del famoso titolo di studio. Cosa quest’ultima che fanno in modo abietto quasi tutte le 10 università telematiche autorizzate a suo tempo da Letizia Moratti . Ma non sono di certo le sole a farlo.

Nelle raccomandazioni finali la ricerca avanza una serie di proposte per l’internazionalizzazione dell’università italiana. Visto il modo in cui la ricerca è stata condotta non sorprende che si tratti di proposte poco più che di cosmesi.

Per fare un lavoro serio in quella direzione occorre recuperare una credibilità che per il momento l’insieme delle università italiane fa di tutto per non avere. Un episodio in apparenza tecnico serve per dire di che reputazione gode l’università italiana. L’Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca (ANVUR) è l’organismo che dovrebbe certificare la qualità dell’istruzione impartita dalle varie università e della ricerca svolta all’interno delle stesse università.

L’Agenzia è stata creata nel 2006, ed è diventata operativa nel 2010. Essa ha fatto richiesta di diventare membro dell’European Association for Quality Assurance in Higher Education, (ENQA). Ma è stata a lungo tenuta alla porta (diplomaticamente trattata come Associate Member). E’ illuminante il contenuto della lettera con la quale nel 2019 è stata comunicata ad ANVUR la sua ammissione come membro dell’ENQA. Si capisce al volo che si è trattato di una ammissione concessa obtorto collo. Per motivi diplomatici un organismo europeo non poteva tenere fuori dalla porta un Paese del G7 e avere da tempo come membri Paesi come la Lettonia e la Romania. Nella lettera viene fatto presente che ANVUR nella sostanza non è in grado di ottenere la collaborazione delle università italiane indispensabile per svolgere il suo lavoro di valutazione sulle stesse università. Queste sono le cose che creano la reputazione profonda di un Paese. E che non si recuperano certo con iniziative di cosmesi.

3. Evitiamo di diventare il Paese delle rane bollite

Anche in Italia ci sono per fortuna delle eccellenze universitarie. Bocconi, essendo una business school, non rientra nelle graduatorie standard, ma nel suo campo è riconosciuta tra le prime al mondo. Il Politecnico di Milano ha un dipartimento di design di prim’ordine. Alcuni dipartimenti di medicina (La Sapienza, Statale di Milano, Padova) e di studi umanistici (Bologna e La Sapienza) hanno pure uno standing elevato. L’elenco non termina qui, ma non è molto lungo.

È indispensabile che molte più università italiane tornino ad essere una molla per la crescita personale e professionale dei propri studenti, ed anche un motore di sviluppo del Paese. Per farlo occorre ampliare i pochi esempi di eccellenza che abbiamo in casa e moltiplicarne la presenza nel Paese. Occorre forse anche fare qualche operazione straordinaria. Sulla carta non sembra impossibile pensare all’alleanza tra nostre università e università straniere di rango elevato. Oppure riuscire a far finalmente leva sul lungo elenco di docenti italiani che insegnano o fanno ricerca nelle migliori università del mondo. Molti di essi sarebbero più che felici di dare una mano alla rivitalizzazione dell’università italiana in un contesto veramente meritocratico nell’insegnamento e nella ricerca. Per fare tutto questo ccorrono ovviamente parecchie risorse economiche aggiuntive, pubbliche e private. Tutte cose difficili ma non impossibili.

Ma diventano impossibili se ci si auto-illude e si illude il Paese che l’attuale offerta universitaria alla fin fine non sia poi così male. De universitatibus (come de mortuis) nihil nisi bonum? Se proseguiamo ancora un po’ su questa strada rischiamo, come in altri casi, di diventare il Paese delle Rane Bollite.

Giancarlo Lizzeri



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  1. Luigi CalabroneE' giusto commentare/criticare un lavoro altrui, rilevando eventuali errori di metodo, eccetera. Ma, per quanto riguarda l'Università italiana, occorre rilevare che la stessa non è che uno specchio della situazione del paese, ed in particolare della sua Pubblica Amministrazione, di cui fa parte/costituisce una della colonne portanti. Se l'Italia è da decenni rattrappita nel suo corporativismo, in cui ogni corporazione si rinchiude in se stessa in posizione difensiva, l'Università non può essere meglio del paese stesso. E, per favore, non si ripeta il solito piagnisteo sul fatto che la percentuale dei laureati italiani è una delle più basse tra quelle dei paesi paragonabili. Non è un mistero che il sistema scolastico (compreso quello universitario) è, in primo luogo, al servizio del mercato del lavoro del paese e che i primi utenti del servizio sono le famiglie e gli studenti stessi. Non c'è da meravigliarsi che le famiglie italiane non vogliano pagare le spese per far laureare i propri figli se la grande maggioranza dei datori di lavoro italiani (i padroncini di micro imprese) non vogliano assumere laureati - al massimo, se li assumono, scelgono propri parenti castrati, che non diano loro fastidio. O le famiglie italiane vogliono costringere i propri figli a trovare lavoro solo in Germania e negli altri paesi che impiegano (e pagano nella giusta misura) i laureati? Anche in queste indagini, oltre che dai numeri, bisogna partire dai fatti concreti. Il giorno in cui dovesse riprendersi il mercato, ora asfittico, e crescesse la domanda di laureati, ne aumenterebbe proporzionalmente la produzione! Forse, in quel momento, continuamente ritardato, aumenterebbe anche la produttività del sistema paese e l'Italia uscirebbe dalla palude in cui si trova ormai da più di vent'anni.
    22 marzo 2021 • 17:33Rispondi
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