24 marzo 2019

UNA MOSTRA CONTROVERSA

Le tele del Grechetto tra cultura e turismo milanese


È stata inaugurata mercoledì 12 marzo a Palazzo Reale la mostra delle 23 tele che rappresentano la gara tra Orfeo e Pan, da un secolo ospitate presso la Biblioteca civica di Palazzo Sormani, al fine, secondo gli organizzatori, di poterle far conoscere a un pubblico più vasto anche per sollecitarne la generosità in vista del loro necessario oneroso restauro, ma anche, ed è il punto più controverso, di una loro successiva collocazione in un’imprecisata sede museale.

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Quando, nel 1943, Alberto Savinio stava per dare alle stampe la sua descrizione letteraria di Milano col titolo Ascolto il tuo cuore città, i terribili bombardamenti di agosto produssero uno sconvolgimento che fornì al libro il valore inatteso di un’ultima testimonianza della città di “prima”, di “Milano quale nessuno rivedrà mai più”. Fa parte di quei ricordi la visita a Palazzo Sormani, da poco venduto dalla famiglia al Comune che vi aveva collocato il Museo di Milano.

Nota con un po’ di ironia Savinio: “uno dei più attraenti nonché d’Italia, ma d’Europa. La netta eleganza delle sale si può apprezzare anche meglio per l’assenza di visitatori. Passiamo sui pavimenti lucidi, noi e il nostro riflesso, signori solitari. La storia della città è illustrata, specie nel suo magnifico Ottocento, con stampe e pitture tra le quali brillano, con luce maggiore, i paesaggi urbani dell’Inganni […] L’ingresso del museo introduce in un tenebroso paradiso terrestre, nel quale ibis e coccodrilli, tarabusi e salamandre affiorano dalla vegetazione densa e accorrono ai suoni della lira di Orfeo”.

L’entrata avveniva dallo scalone d’onore del palazzo attraverso quella che, dopo il 1956, con il cambio di destinazione a sede della Biblioteca civica, sarebbe diventata nota come Sala del Grechetto. L’imponente serie di tele, malgrado la perfetta sintonia con l’ambiente, non era stata tuttavia concepita per palazzo Sormani ma per lo scomparso palazzo Lunati Verri, situato fra l’omonima via e corso Montenapoleone. Committenti ne erano stati i precedenti proprietari: i Visconti del ramo di Carbonara.

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Della misteriosa e controversa origine delle pitture è forse testimonianza l’inventario redatto in morte di Giovanni Battista Visconti del 1632, che segnala una stanza decorata “a pezzi 6”. Per gli studiosi il primo nucleo del ciclo di Orfeo. Passato alla famiglia Lunati (o Lonati) e poi ai Verri, del palazzo fu decisa la vendita nel 1877 da parte dell’ultima erede, Carolina Verri, che aveva sposato Alessandro Sormani Andreani. Le tele di Orfeo furono allora staccate e portate in corso di Porta Vittoria dove giacquero fino al 1907, quando furono adattate all’attuale salone, più piccolo rispetto a quello della loro destinazione originale.

Se i dipinti del Museo di Milano furono salvati dalle bombe col loro trasferimento a cura della Soprintendenza a Sondalo, solo un miracolo preservò in loco la sala del Grechetto, il cui smontaggio e trasporto erano stati evidentemente considerati troppo complessi. Il Museo di Milano era stato approntato sul modello del Museo Carnavalet di Parigi, seguendo il modello impossibile della capitale francese, forse inconsciamente nostalgici i milanesi del ruolo di capitale assunto dalla città nel periodo napoleonico. Esempio sul quale si erano già dotati nell’Ottocento di un Louvre, adattando il Castello Sforzesco a museo onnicomprensivo, ma anche, purtroppo, a cimitero della città perduta, che proprio in quegli anni aveva visto cancellare vestigia medievali e rinascimentali, con l’unica cura di riportarne qualche resto in forma di allestimento museale.

È noto che i grandi musei (in primis proprio il Louvre) ebbero da subito accaniti detrattori: da Quatremère de Quincy a Duranty, da Kropotkin a Marinetti, da Proudhon a Malevic, da Paul Valéry a Walter Benjamin.

Oggi, in modo meno partigiano, se si accetta il fatto compiuto, in molti casi per assenza di alternative in merito alla collocazione delle opere, la controversia verte piuttosto sul significato da attribuire all’affluenza dei visitatori. In questo senso si è fatta strada l’opinione di Jean Clair (Accademico e Conservatore generale di Francia), già direttore di prestigiosi musei ed esposizioni, per il quale il successo di un museo non si valuta in base al numero dei visitatori che vi affluiscono, ma al numero dei visitatori ai quali ha insegnato qualcosa.

Nel suo pamphlet polemico L’inverno della cultura, Clair descrive le folle dei turisti come i fedeli di un culto agnostico: “Cosa cerca il pellegrino moderno, il girovago artistico, l’automa ambulatorio che va dal Louvre a Metz, da Londra a Bilbao, da Venezia al MoMA [..]? Che salvezza si aspetta dalla contemplazione di opere che sarebbero, di per se stesse, la ricompensa di queste migrazioni? Niente di certo, un’incomprensione, una delusione più forte, e la tentazione, sempre meno repressa, del sarcasmo e perfino di un certo vandalismo e, in qualche caso, del furto”.

Il tentativo di costruire a Milano due assi lungo le quali far convergere questo tipo di turismo: Duomo-Palazzo Reale-Castello Sforzesco; Duomo-piazza Scala-Quadrilatero della moda così che si possa dire di aver “visto” Milano in massimo due giorni, è purtroppo abbastanza evidente. In perfetta controtendenza peraltro con le iniziative che tendono a valorizzare la “città diffusa”: dal Fuori Salone del Design a Bookcity.

In questo senso un’autentica valorizzazione delle tele di Orfeo, una volta ritornate alla loro sede “naturale” non andrebbe disgiunta da quella di via Francesco Sforza, oggi unicamente arteria di traffico caotico, comprendendo oltre a palazzo Sormani, il parco della Guastalla, la Ca’ Granda col suo archivio e quadreria fino alla chiesa neoclassica del monastero di Santa Sofia.

Alberto Di Bello



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