15 marzo 2019

POTERE E INTERESSI NELLA GRANDE IMPRESA AZIONARIA

Non solo profitto, ma anche qualità dei prodotti e tutela ambientale


190315_BellonNon sprechiamo una buona crisi,” diceva uno dei consiglieri di Obama. Ed è proprio quello che dovremmo fare, almeno per mettere in discussione le fondamenta dell’economia di mercato. Viviamo nel paradosso di una normativa globale ancora priva di un’educazione giuridica universale. E’ necessario un nuovo modello con cui pensare il sapere giuridico e il ruolo stesso del legislatore, a partire dall’internazionalizzazione del sistema e dalla revisione di molte istituzioni fondamentali dell’economia di mercato, prima fra tutte, la cellula di organizzazione dell’attività produttiva: l’impresa.

Umberto Tombari, avvocato e professore ordinario di Diritto commerciale all’Università di Firenze, nel suo ultimo saggio “Potere e interessi nella grande impresa azionaria” (Giuffrè Francis Lefebvre, Milano, pag. 128, euro 18,00), sostiene che i tempi sono maturi per riscrivere l’articolo 2247 del Codice Civile, che sancisce la regola generale secondo cui il potere gestionale in ogni società ha come riferimento essenziale l’interesse dei soci alla produzione e distribuzione degli utili.

Negli ultimi tempi l’impresa capitalistica è apparsa come una delle maggiori cause dei problemi sociali, ambientali ed economici. Le grandi società nazionali e multinazionali sono state considerate “soggetti che prosperano a danno o a spese della comunità di riferimento”, così scrive l’autore. I termini della questione, come si evince dal titolo, sono tutti nella contrapposizione fra potere e interessi, concetto che, tradotto in termini giuridici, significa che il problema sta nell’equilibrio tra disciplina e tutela.

Nell’ampia analisi comparata di Tombari emerge, tra gli esempi, l’ordinamento tedesco, dove l’equilibrio tra shareholder e altri stakeholder si risolve attribuendo all’organo amministrativo il compito di realizzare un’adeguata compensazione e mediazione di tutti gli interessi coinvolti nell’impresa. L’affermazione della teoria dello shareholder value è divenuta dominante nella prassi perché faceva coincidere gli interessi di breve periodo degli azionisti con quelli dei manager, risolvendo il problema con la più classica eterogenesi dei fini. Il risultato è stata una catena di distorsioni che l’autore evidenzia con rigore. Infatti, in questa visione, le finalità dell’impresa vengono piegate alla pura realizzazione del profitto, secondo il concetto di Milton Friedman “the business of business is business”.

Ma l’impresa invece nasce e vive per scopi più ampi, che coinvolgono l’estetica dei beni prodotti, il rapporto con i clienti, i fornitori e i lavoratori, l’ambiente circostante. Il profitto quindi deve essere un vettore per raggiungere questi fini, non l’unico scopo.

Qualcosa è stato fatto con l’introduzione nell’ordinamento italiano della figura della “società benefit”, che oltre a distribuire l’utile si prefigge finalità di beneficio comune, ma è difficile immaginare che questo modello si possa applicare alle grandi aziende. Com’è difficile eludere il nodo di fondo di una produzione normativa che vive oggi la fase terminale del proprio paradigma basato sul primato esclusivo dello Stato e sul suo monopolio nel produrre il diritto. Oltre al fatto che non si può continuare a studiare in modo “nazionalista” un diritto sempre più ricco di interdipendenze con il resto del mondo. L’intensa attività dei giuristi, che sempre più si sviluppa a livello internazionale, rischia di non avere alle spalle una formazione giuridica aperta in senso universale.

La verità è che è necessaria una nuova “tecnologia” anche nel definire le norme e una ricerca di ampio respiro nel trovare credibili strumenti per rappresentare le profondissime mutazioni sociali ed economiche contemporanee che puntano alla globalizzazione.

Cristina Bellon



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