1 marzo 2019

“ROSSETTI RECORDS & BOOKS”

Una vecchia bottega per ricordare e socializzare


L’insegna quasi non si vede dall’esterno e per capire che cos’è davvero “Rossetti Records & Books”, via Cesare da Sesto 24, bisogna passare dalla porta che si trova quasi all’angolo con piazza Sant’Agostino. In realtà non è soltanto una porta, è una specie di stargate che introduce a una dimensione dimenticata, quasi sepolta. Ma non morta.

La dimensione di quella generazione che ci credeva, che pensava di riuscire a cambiare le cose con la musica e con le buone letture, con saperi antichi abbinati a linguaggi nuovi. Che sognava un futuro di discussioni e incazzature, assemblee e cineforum, libertà e partecipazione per dirla alla Gaber. Tutto su carta e vinile, naturalmente, i supporti che assieme a pellicola e nastro veicolavano ogni idea, ogni messaggio, ogni sospiro. Oggi quella generazione si ritrova spiazzata, legata a modelli superati anche dal punto di vista tecnologico. Un’élite intellettuale secondo il lessico e lo spirito del tempo che, senza più riferimenti ma in compenso con molti più capelli bianchi, guarda altrove e si rintana nei suoi luoghi dello spirito. Ecco, diciamo che il 24 di Cesare da Sesto è uno di questi luoghi.

 

Due piccoli ambienti in cui ci si muove quasi a fatica, specie nei momenti di maggiore affluenza, riempiti con un ordine logico di carta e vinile. Libri, cd e dischi usati. Libri, cd e dischi vissuti. Libri, cd e dischi simbolici, evocativi, identitari. Ti fermi su un album di Al Di Meola e ti cade l’occhio sulla sensualissima copertina di “Felicità” di Nina Berberova. Scovi un Pat Metheny d’annata e a poca distanza spunta John Coltrane. Non fai in tempo a commuoverti su Keith Emerson and The Nice pensando a qualche era geologica fa, quando chiudevi gli occhi ascoltandolo e immaginavi di essere di fronte a una folla estasiata dalle “tue” performance, che sembra materializzarsi il flauto traverso di Ian Anderson dei Jethro Tull. Tutto ordinato, tutto catalogato come si è fatto per secoli. A memoria, a mano. Non c’è traccia di computer, non ci starebbe neanche su quella piccola scrivania che rappresenta il fulcro del negozio. Non c’è elettronica, solo classificazione d’antan.

“Sono qui dal 1981 – racconta Maurizio Canella, il titolare – quando decisi di mettermi in proprio, dopo gli studi in filosofia, due anni di insegnamento e una parentesi come dipendente di una multinazionale tedesca. Aprire un posto così era il mio sogno. Un negozio che non fosse soltanto un punto commerciale, ma anche un luogo di aggregazione per il quartiere. Da me oggi entra il ragazzo che cerca dischi in vinile e qui scopre una miniera, ma passa anche l’ex docente di estetica alla Statale che si ferma a parlare di politica, o la signora con i capelli molto più bianchi dei miei che vuole soltanto chiacchierare dieci minuti, trovare qualcuno che la ascolti: magari di musica non sa nulla, ma le piace passare qui un po’ del suo tempo. C’è anche il ragazzo con problemi psichiatrici, lo conosco: sta qui un po’, saluta e se ne va”.

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Una specie di centro culturale aperto a tutti. “Io sono contento se la gente viene qui e parla, vuol dire che questo posto ha un senso. Oggi ne viene molta meno, in compenso stanno tornando i giovani. Da me imparano in fretta che se stanno cercando qualcosa di particolare devono venire di persona a metter le mani tra le copertine. Non ho voluto fare un sito Internet proprio per questo: mi piace che la gente chiacchieri mentre curiosa tra gli scaffali”.

Quindi investire in cultura rende, è ancora una voce in attivo nel bilancio di una comunità? “Ma no. Oggi se vuoi fare cultura e non sei ricco non vai da nessuna parte. Tengo aperto solo per passione, non si campa. Ma non posso pensare di chiudere questo negozio. Lo considererei come uccidere la fidanzata, un femminicidio”.

Jazz, rock, fusion o progressive, da “Rossetti” c’è di tutto, il nuovo e il vecchio, il moderno e il classico. Dagli scaffali ammiccano l’opera completa di Vivaldi, o una quasi nuova edizione della quinta sinfonia di Mahler diretta dal maestro ceco Rafael Kubelik: si fanno largo tra le variopinte copertine di Pfm e Orme, Procol Harum e Rik Wakeman, Cat Stevens, i tre moschettieri Crosby Stills and Nash con l’aggiunta di D’Artagnan-Neil Young. E ancora Stormy Six, Donovan, Nirvana, Eugenio Finardi, Alberto Fortis, Francesco Guccini, i Gufi, Claudio Lolli, lo chansonnier italo-belga Adamo (“La notte tu mi appari immensa…”), Paul Anka, King Crimson, Ozzy Osbourne, Brunori sas e Mannarino, per citare gli artisti più recenti. Non manca nessuno all’appello. O forse sì.

Non abbiamo ancora parlato di quei quattro giovanotti che all’inizio della seconda metà del Novecento dalla natìa Liverpool buttarono all’aria la musica come il mondo l’aveva conosciuta fino a quel momento. L’album è lì, il decimo dei Beatles, uscito il 16 novembre 1969: si chiama “Abbey Road” dal nome della via londinese in cui si trovavano gli studi di registrazione e quella foto in copertina è diventata un’icona mondiale, un meme prima dei meme: ancora oggi basta guardarla qualche secondo qui, tra questi scaffali, per credere che il tragitto da Porta Genova a South Hampstead in fondo sia questione di pochi minuti, che basterebbe girar l’angolo e ci si ritroverebbe a Londra. Invece sono 1.306 chilometri e 400 metri, secondo le mappe di Google. Un’enormità. Come i cinquant’anni che ci separano dalla copertina dei quattro che attraversano la strada sulle strisce.

Ugo Savoia



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