20 febbraio 2019

ALTERNATIVA MAZZINIANA

Gli errori si ripetono


190220_BellonSe non lo avessimo visto in foto, ma ne leggessimo soltanto i pensieri, Giuseppe Mazzini ce lo immagineremmo come lo descrisse l’austriaco Klemens von Metternich, principe di Metternich-Winneburg: un brigante italiano, magro, pallido, cencioso, ma eloquente come la tempesta, ardente come un apostolo, astuto come un ladro, disinvolto come un commediante, infaticabile come un innamorato.

Dal grande baule della memoria, dove gli storici – ma non i politici – cercano materia per qualche utile richiamo che ci possa insegnare come affrontare i problemi del presente e guardare al futuro, l’evento più ricordato è la “Conferenza delle nazionalità soggette all’Austria-Ungheria”, organizzata a Roma nell’aprile del 1918, e il conseguente Patto di Roma. La rivalutazione di questo momento storico, quando riemersero correnti politiche di “stampo mazziniano” favorevoli alla solidarietà con i popoli slavi, costituisce il nucleo interpretativo del saggio “Alternativa mazziniana” (Castelvecchi, pp 340, euro 35), scritto da Francesco Leoncini, storico dei popoli slavi e, in particolare, della Legione Ceca che fu costituita in Italia nell’ultima fase della guerra e combatté sul Piave nell’estate del 1918.

Leoncini ci racconta come e perché, dopo la Prima Guerra Mondiale, nacquero la Cecoslovacchia e la Jugoslavia, due stati europei del secolo scorso che pochi ricordano ma nessuno rimpiange, e quali speranze o illusioni diedero vita a due realtà statuali che non erano mai esistite e mai ritorneranno a esistere. Il titolo del saggio è un’evidente allusione al sogno di Mazzini: di un risorgimento delle popolazioni slave e di una loro pacifica convivenza con l’Italia unita.

La rotta di Caporetto e il ritiro della Russia dal conflitto, con la possibilità di un concentramento delle truppe degli Imperi centrali sul fronte italiano, fanno riemergere con forza il ruolo di quelle correnti politiche di stampo mazziniano favorevoli a un rapporto di solidarietà con le popolazioni danubiano-balcaniche e a un’intesa con i comitati degli émigrés, che ormai combattevano per creare degli Stati indipendenti. Con la politica filoslava l’Italia sarebbe divenuta, dopo la Guerra, il Paese leader dei nuovi Stati nati dalla morte degli Imperi centrali.

Non tutta la classe politica italiana però desiderava la disintegrazione dell’Impero asburgico e condivideva il sogno mazziniano di chi stava organizzando il convegno di Roma, a partire da Sidney Sonnino, ministro degli Esteri del governo presieduto da Vittorio Emanuele Orlando, che intuiva le tragiche conseguenze dell’operazione: sui 700.000 chilometri quadrati occupati dalla Duplice Monarchia avrebbe dovuto sorgere un nugolo di staterelli improvvisati e fragili, ciascuno gravato da economie instabili e bellicose minoranze etniche.

Dalla ricostruzione dei fatti da parte dell’autore, che apre vie poco battute dalla storiografia, si comprende che l’Italia ebbe un ruolo fondamentale in questa complessa vicenda. L’evento che portò allo scoperto le intenzioni degli slavi accadde a Roma dall’8 al 10 aprile 1918, dove ebbe luogo, in Campidoglio, la Conferenza delle nazionalità soggette all’Austria e all’Ungheria, alla quale parteciparono “czeco-slovacchi” (come si scriveva allora), iugoslavi, polacchi e romeni. L’esito finale della conferenza affermava il diritto a ciascun popolo alla piena indipendenza.

Anche in quell’occasione, il governo di Roma dimostrò di non avere idee chiare sugli obiettivi, come poi accadrà alla conferenza di Parigi, che ricostruì artificialmente l’est europeo. Il governo non si fece paladino dei nuovi diritti riconosciuti, ma andò subito allo scontro con la Jugoslavia per la questione di Fiume e della costa dalmata. La definizione dei confini dovette attendere il nuovo governo di Giovanni Giolitti e un nuovo ministro degli Esteri, Carlo Sforza, che avrebbe firmato, nel 1920, un trattato ispirato al patto di Roma.

La conclusione interessante che si può ricavare dal libro di Leoncini è che la mancanza di chiarezza sugli obiettivi non è solo un problema di cent’anni fa. Continua ad esserlo anche oggi. Forse è per questo che molti sperano nel prossimo governo. E si va avanti così, di governo in governo, a commettere gli stessi errori.

Cristina Bellon



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