18 ottobre 2017

sipario – TROPICANA: TRA QUIETE E TEMPESTA


È stato in scena fino al 19 ottobre a Teatro i. Tropicana, progetto delle compagnia Frigoproduzioni, prodotto da Teatro i, in collaborazione con l’Associazione Culturale Gli Scarti: uno spettacolo che indaga i meccanismi e i fallimenti della comunicazione nel mondo moderno, e si interroga sul ruolo dell’artista e sui limiti imposti alla sua libertà dalla ricerca del successo. In cerca di risposte Sipario-dietro le quinte ha incontrato Francesco Alberici, autore del testo e attore nello spettacolo.

sipario34FBLa nostra compagnia è nata nel 2014 in occasione del Bando Pancirolli, al quale partecipammo con lo spettacolo Socialmente. Il nome che ci siamo dati è il frutto di una lunga indecisione, culminata con un’inaspettata epifania: nella scenografia dello spettacolo faceva bella mostra un frigorifero, e in questo oggetto apparentemente banale abbiamo riconosciuto l’emblema della nostra riflessione: il rapporto tra banalità quotidiana ed eccezione artistica, tra creatività e industria, libertà e leggi del mercato.

Cos’è Tropicana?

Tropicana è nato due anni fa, dalla costola di un altro progetto che avrebbe dovuto intitolarsi La palestra, ma che non siamo mai riusciti a portare a termine perché, dopo il successo riscosso con Socialmente, siamo stati bloccati dalla pressione dell’aspettativa e della volontà di mantenere alto lo standard. Il titolo fa riferimento al brano che negli anni Ottanta portò a un rapido ed effimero successo i Gruppo Italiano. Si tratta di un calypso orecchiabile (diventato un tormentone estivo nel 1983), ma che tra i suoi ritmi apparentemente allegri cela il racconto di un’apocalisse (la catastrofe nucleare su un’isola) alla quale si assiste senza poter reagire. Anche noi come compagnia stavamo assistendo alla (molto meno tragica) fine di qualcosa, ed eravamo bloccati di fronte al naufragio del nostro progetto. Ma proprio da questo è nato qualcosa di nuovo, una nuova riflessione sul mondo e sulla capacità dell’arte di raccontarlo.

Tropicana è anche il nome di una famosa bibita, prodotto della società massificata, dell’industria che genera omologazione e illusione. Col nostro spettacolo abbiamo riunito tutti questi spunti (arte, industria, apparenza, successo e fallimento, vuoto comunicativo) e li abbiamo portati sulla scena.

Qual è l’esito della vostra riflessione? Qual è il rapporto fra teatro e mercato, fra arte e società dei consumi e della massificazione?

Non si può dare una risposta definitiva, ma l’artista deve necessariamente trovare un compromesso tra libertà e adeguamento alle dinamiche che governano l’“economia” del mondo, senza lasciarsi schiacciare dall’una o dalle altre. In altre parole, l’arte non può essere solo critica nei confronti del mercato, perché solo entrando a farne parte può realizzare il suo scopo e raggiungere i destinatari del suo messaggio. D’altra parte però l’esposizione mediatica e le aspettative del pubblico creano delle limitazioni alla libertà dell’artista, gli pongono consciamente o inconsapevolmente dei vincoli.

Quali sono le caratteristiche peculiari dello spettacolo?

Si può dire che tutto ruota attorno all’idea dell’omologazione e dell’annullamento: per questo nello spettacolo vi è una totale rinuncia alle coordinate spazio- temporali; tutto è volutamente piatto, neutro, anonimo, straniante e liberamente interpretabile (o ‘ininterpretabile’).

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Abbiamo optato per una scena scarna, essenziale e completamente verde, che riproduce il green screen tipico degli studi televisivi (“non-luogo” per eccellenza) e al tempo stesso evoca l’atmosfera esotica delle piante tropicali). Su questo sfondo neutro si stagliano per contrasto (innanzitutto cromatico) pochi elementi, che divengono quasi “correlativi oggettivi” di significati più profondi. Per esempio le quattro bottigliette di Tropicana (a cui noi abbiamo dato la forma riconoscibilissima della Coca Cola) sono un’oggettivazione dei quattro protagonisti sulla scena, degli attori che si riconoscono consapevolmente come “prodotti” dal mercato, destinati al consumo da parte del pubblico, e dunque testimoni del flirt tra arte e società industriale tipici del design e della pop art.

Dunque un linguaggio ridotto all’essenziale diventa in realtà uno scrigno di significati difficilissimi da interpretare …

È così, perché a essere complicato è il mondo contemporaneo. I significati si celano sotto strati di apparente leggerezza, allegria, soddisfazione, e questo rende più difficile la loro reale interpretazione. In Tropicana abbiamo cercato di riprodurre questo senso di “vuoto” e “superficialità”, rinunciando a molti degli strumenti più tipici del linguaggio teatrale (l’ambientazione definita, il contrasto tra luci e ombre, etc.), facendo venire meno la consapevole sensazione della “finzione” e generando un impasse interpretativo. Tutto sembra ridursi a una fotografia dai colori sgargianti, oltre la cui superficie bisogna andare in cerca della realtà, che rischia rivelarsi un abisso spaventoso.

Chiara Di Paola

Foto di Gianni G. De Marco

questa rubrica è a cura di Domenico Giuseppe Muscianisi e di Chiara Di Paola
rubriche@arcipelagomilano.org



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