23 maggio 2017

CHI GUADAGNA, CHI RISCHIA E UN EQUO COMPENSO

Un elemento di discussione sugli scali di Milano


Ecco un altro (ennesimo?) contributo al tema degli scali ferroviari da riqualificare ma, riscontrando nel dibattito in corso qualche confusione nella assegnazione di ruoli e valori, ho provato a mettere ordine nei ragionamenti, più che a definire i valori stessi o a dare linfa a una tesi piuttosto che un’altra.

08bonomi19FBRischio/Plusvalore – Un aspetto centrale della pratica valutativa (della teoria?) è il giusto compenso dell’operatore. La prima criticità sta nella definizione di “operatore” che spesso viene identificato con il costruttore, ingenerando non pochi equivoci.

L’operatore in realtà si estende su diversi ruoli, e non necessariamente tutti, quali ad esempio: ideatore/promotore (che idea e verifica la fattibilità, anche se il concetto di fattibilità in realtà è un processo iterativo che segue lo sviluppo nel tempo), lo sviluppatore (che si fa carico del processo autorizzativo) il progettista (ruolo abbastanza chiaro) il costruttore (altrettanto chiaro).

Ogni ruolo può sommarsi ad uno o più altri, e questo genera complessità di comprensione e scarsa trasparenza. In linea di massima il valore e il costo di alcuni di tali ruoli può essere facilmente definito: il progettista ha compensi “appropriati” rispetto al suo mercato, il costruttore è remunerato in base ad un prezziario delle opere, in cui il suo utile è incluso.

Più difficile è assegnare un valore dell’operato del promotore e dello sviluppatore, a maggior ragione se sovrapposte, e infatti tale valore è la risultante dell’analisi economica, spesso definito come plusvalore, ma ciò è forse è improprio o perlomeno impreciso, e l’unico strumento di misura è la prassi.

Cosa caratterizza queste due figure, i loro ruoli? L’assunzione del rischio imprenditoriale. Mettiamo da parte le deformazioni patologiche di un mercato dove spesso il promotore-sviluppatore scarica tutto (possibilmente) il rischio sui finanziatori terzi (le banche di solito) fingendo di assumersene una quota dove di capitale “sonante” c’è solo l’apparenza, e pensiamo a un mercato sano (che esiste).

Questo soggetto impegna capitale liquido (limitato) e sostiene costi non sempre scaricabili immediatamente sul progetto, spende tanto tempo, impegna credibilità professionale o aziendale per un compenso che spesso si concretizza solo alla fine di un processo lungo di solito diversi anni, talvolta molti.

Ciò comporta come assunzione di rischi (1) che il progetto venga bocciato (perlomeno nelle fasi iniziali); e possiamo ipotizzare che una percentuale di progetti abortisca, con la conseguenza che tali costi vadano ridistribuiti sul costo di impresa, dove un progetto di successo sostiene i costi iniziali dei progetti abortiti; (2) che il progetto venga modificato/condizionato/ridotto; (4) che insorgano vincoli imprevisti (leggi soprintendenza, che non sempre è verificabile o supponibile);

(5) che al progetto vengano addossati oneri maggiori di quelli preventivati; (6) che si scoprano diritti di terzi inizialmente non noti; (7) che emergano imprevisti: bonifiche, consolidamenti di terreni, etc.; (8) che il mercato cambi aspettative in un ipotesi di cambiamento strutturale (ipotesi non inverosimile sui tempi lunghi talvolta necessari);

(9) che il prodotto arrivi sul mercato in una fase congiunturale negativa (con conseguente dilazione dei tempi); (10) che muti il contesto finanziario (sempre in un contesto di correttezza imprenditoriale) con aumento del costo finanziario oltre le tolleranze accettabili; (11) che si sbagli il progetto (capita) e magari occorra poi affrontare maggiori costi; (12) che l’iter autorizzativo si interrompa per cause tecniche (cambio di normative, etc.), politiche (cambio di amministrazione, etc.), amministrative (ricorsi, etc.), sociali (opposizioni, etc.).

Praticamente tutti i rischi elencati non esaustivamente comportano oltre a costi diretti anche il costo indiretto del tempo che la loro risoluzione richiede. E il fattore temporale è essenziale … . La riflessione sul valore del rischio prescinde dalla natura del proprietario del bene: i rischi elencati sopra sono in capo anche ad un soggetto pubblico, alcuni meno cogenti ma altri di più.

Se un’Amministrazione comunale valorizza un bene pubblico e lo cede (o lo concede) deve comunque affrontare un processo autorizzativo e il valore del bene muta in funzione della fase temporale. Se si assume tutto l’onere della trasformazione (a maggior ragione se deve acquisirlo da privati, come nel caso dello sviluppo del vecchio porto di Amburgo) è giusto che incameri tutto il plusvalore derivante dal processo di valorizzazione (a parte l’utile del costruttore); ma così deve anche accollarsene i rischi: di ritardi negli itinera urbanistici e autorizzativi, errori di valutazione, imprevisti, crolli di mercato, etc.

Un’amministrazione ben strutturata, trasparente, ed esperta può assumere questo ruolo: all’estero è frequente, ma possiamo dire lo stesso per le nostre amministrazioni pubbliche, con i conflitti striscianti tra schieramenti politici, tra stato centrale e periferico, tra organi politici e burocrazie? Non serve un esame di coscienza, la risposta è già sul tavolo.

Si può ipotizzare il cambiamento di questo quadro? sì, forse, ma quando? Credo che non possiamo aspettare che l’amministrazione pubblica passi attraverso una autoriforma radicale, non lo possano attendere le nostre città, le periferie, il cambiamento della struttura economica e sociale: le città non possono interrompere la crescita, se no muoiono.

Occorre quindi concentrarsi sul cosa fare oggi, nella realtà amministrativa esistente, approfondendo la riflessione sulla ripartizione temporale del rischio/costo del rischio per gli attori che ci sono, non per quelli che dovrebbero esserci.

Un amministrazione pubblica che (ai diversi livelli istituzionali) ha prodotto processi e regole complessi come quelli che ci avvolgono non deve stupirsi se, come conseguenza, il privato attribuisce un elevato peso al rischio di gestire tali processi. Il principio sottostante (ma evidente) è che a maggiore rischio deve corrispondere un maggiore margine imprenditoriale.

Il successivo effetto è che al maggiore peso del margine imprenditoriale corrisponde un minore peso di una o più altre poste economiche. E generalmente tale riduzione si scarica sul valore del bene oggetto di trasformazione.

Queste considerazioni teoriche diventano molto concrete nel momento in cui le si applica alla realtà della valorizzazione degli scali ferroviari di Milano, attraverso un esercizio di analisi di fattibilità economica del progetto in quanto tale, e di come i proventi generati dal progetto di valorizzazione vengono attribuiti ai due attori originali del progetto stesso, del loro coinvolgimento, dei loro ruoli.

Tale analisi comporta la costruzione di un modello economico che, pur con tante ipotesi di lavoro, consenta un “dimensionamento” economico negli scenari concettualmente ipotizzabili, anche solo come ordine di grandezza. Spero che il tema sia abbastanza interessante da portarvi alla continuazione del discorso settimana prossima … .

Giuseppe Bonomi



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