2 dicembre 2019
“QUER PASTICCIACCIO BRUTTO DE LI SCALI FEROVIARI”
Giorni grigi per Milano
2 dicembre 2019
Giorni grigi per Milano
Chiedo scusa a Carlo Emilio Gadda, un grande milanese, per aver storpiato il titolo del suo bellissimo romanzo ma pensando agli scali ferroviari di Milano solo un “pasticciaccio” è la parola adatta a descrivere quel che succede.
Al di là della sentenza del TAR che va commentata e che ha sollevato molti dubbi, come un fulmine a ciel sereno è arrivata la trasmissione di Report di lunedì 25 scorso che ci ha mostrato tre personaggi che con la vicenda “scali” hanno a che fare: Carlo De Vito, Amministratore Delegato di FS Sistemi Urbani (FSSU) – controllata da FS Italiane – che ha il compito di valorizzare il patrimonio non più funzionale a FS, Beppe Sala, sindaco di Milano e Giovanni Malagò, presidente del CONI dal 2013, un uomo che, come dice l’Espresso, in tanti anni di carriera a cavallo dello sport ha accumulato un patrimonio di 50 milioni di euro. Non tre poveri sprovveduti dunque ma uomini pratici di mondo.
Eppure nella terribile e imbarazzante intervista a Report hanno detto di non saperne nulla dei soci coi quali hanno scelto di riunirsi nella vicenda dello sviluppo degli scali ferroviari milanesi. Il serafico Malagò ha poi sostenuto di non sapere nulla della società che dovrebbe intervenire realizzando nell’area di Porta Romana un’attrezzatura destinata alle Olimpiadi, società posseduta da una banca, Banca Finnat, di cui è socio.
Che dobbiamo dire? Ci siete o ci fate? Possiamo stare tranquilli che il “bene comune” è in buone mani?
Ma perché devono esserci zone d’ombra che aprono il varco a qualunque sospetto e convicono la gente che dietro la facciata della Smart City ci siano cose impresentabili o enorme leggerezza? Si sta facendo un buon servizio alla città?
Ma veniamo al “pasticciaccio”. Chi pensa che questa telenovela urbanistica sia abbastanza recente deve ricredersi: è cominciata nel 1995 quando i due architetti Andrea Balzani – il maitre à penser di allora dell’urbanistica socialista a Milano – e Luca Imberti fecero un primo progetto per il riutilizzo degli scali, in particolare quello di Porta Vittoria. Ricordo un articolo di Giuseppe Longhi del 2015 su questo giornale che ne parla. Quel progetto era certo meglio e più attento ai bisogni della città dell’attuale masterplan.
Da allora la vicenda ha avuto un andamento carsico, scompare e riemerge durante i due mandati di Gabriele Albertini (1999-2016) e ricompare prepotentemente alla fine del mandato di Letizia Moratti che non riesce nel 2011 a far approvare il nuovo Piano di Governo del Territorio: sanciva la nuova destinazione urbanistica degli scali che avrebbe consentito l’adozione dell’Accordo di Programma tanto voluto dalle Ferrovie dello Stato.
Il frutto avvelenato passò alla Giunta Pisapia (2011-2016) che non ebbe il coraggio di mandare a monte tutto per non essere accusato di “fermare Milano”, ossia di arrestare una gestione del territorio poco o nulla attenta ai reali bisogni della città e determinò un atteggiamento politico di “benevola”attenzione agli operatori immobiliari, gli unici ancora oggi ritenuti in grado di trasformare Milano nella tanto celebrata Smart City. L’abdicazione della progettazione pubblica della città.
La storia recente la conosciamo ma chi sulla vicenda scali vuol saperne di più ha a disposizione un ottimo saggio di Gabriele Pasqui in Raccontare Milano, Politiche, Immaginare (Franco Angeli 2018).
Ma da allora quale è stata la politica urbanistica Milanese?
Nel gennaio 2012 l’ex assessore all’urbanistica Carlo Masseroli, diventato capogruppo del PdL in Consiglio Comunale, intervenendo dall’opposizione nel dibattito sul PGT disse : «Gli obiettivi possono anche essere condivisibili, ma non sono realizzabili. E il rischio è che Milano si blocchi». E ancora: «Sembra si vogliano far prevalere il dirigismo tipico dei vecchi e falliti piani regolatori, il centralismo e la burocrazia. E’ antistorico dal punto di vista culturale ed economico, soprattutto in un momento in cui anche il Governo centrale impone le liberalizzazioni, è sbagliato usare questo metodo». Per poi proseguire: «Basta con il dibattito sulla quantità di cemento, che è un approccio provinciale e ideologico al tema della gestione del territorio. Meglio il cemento di Brera che il non cemento di Porto di Mare, dico io per paradosso. Se continuiamo a mettere paletti, alla fine lavoreranno soltanto i grandi operatori che per paradosso sono i nemici contro cui si è spesso mossa la sinistra». Quest’ultima fu una profezia. Quali furono i “paletti” delle Giunte Pisapia e ora Sala? Chi sono gli operatori attuali?
Dove sta la discontinuità rispetto alle Giunte Albertini-Moratti?
Veniamo alla sentenza del TAR che altri più competenti commenteranno; io mi limito a definire un clima. Avete in mente le aule dei tribunali americani di tanti film e serie televisive: entra la Corte e il Cancelliere proclama: “Lo Stato contro John Brown”. Al TAR non entra la Corte ma se entrasse dovrebbe dire in questo caso: ”Cittadini contro il Comune”.
Ma chi sono questi cittadini? Tutti vedono compromessi i loro interessi economici? Sono tutti nella folta schiera dei “not in my backyard”?
No. Sono prevalentemente cittadini che non condividono scelte urbanistiche e che hanno a cuore una crescita e una trasformazione delle città da qui al 2030 più attenta ai bisogni ma che soprattutto lamentano di non essere stati ascoltati checché ne dica l’assessore Maran con le sue tavole e i suoi convegni. Quella era solo ingegneria del consenso, marketing politico.
Sento aria di ricorsi in appello al Consiglio di Stato, ma quando finirà l’era dei pubblici amministratori che vogliono lasciare a tutti i costi sul territorio un “segno di sé”, qualunque esso sia, anche il peggiore? Magari solo con un po’ di vernice?
Marcel Libeaut
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