23 maggio 2017

musica – GIANNI SCHICCHI


L’opera in forma di concerto ha antiche tradizioni ma nel nostro Paese è poco frequentata, almeno in epoca recente; sembra che senza una scenografia e senza costumi l’opera non sia pienamente godibile, che si stenti a capirla, che diventi noiosa.

musica_19FBLa scorsa settimana l’orchestra Verdi e i cantanti della Scuola dell’Opera del Teatro Comunale di Bologna, diretti da John Axelrod, hanno dimostrato che non è vero e che per alcuni aspetti è vero proprio il contrario. Vedere l’orchestra sul palco (e non ascoltarla soltanto, nascosta in buca), il direttore sul podio e tutti i cantanti alla ribalta – senza costumi, tantomeno d’epoca, ma nei normali abiti da sera – consente l’ascolto della musica con una concentrazione di gran lunga superiore rispetto a quanto accade nel caso della rappresentazione completa.

Certo, la messa in scena dell’opera aggiunge molto alla sua capacità di emozionare, alla comprensibilità della trama, a quel coinvolgimento totale che è proprio una delle principali caratteristiche dell’opera lirica. Ma il rischio che la musica passi in secondo piano rispetto allo spettacolo, e che dell’opera si finiscano per apprezzare solo le arie più famose, è sempre in agguato e spesso penalizza la lettura corretta e completa della essenziale componente musicale.

All’Auditorium di largo Mahler, purtroppo non gremito come avrebbe meritato, si rappresentava Gianni Schicchi di Giacomo Puccini – un atto unico della durata di poco meno di un’ora – spesso ma a torto considerato un lavoro minore del compositore lucchese. Essendo così breve quest’opera viene usualmente messa in scena insieme ad altri due atti unici Il tabarro e Suor Angelic”, tutti del 1918.

Dei tre lavori solo lo Schicchi è opera buffa, o per meglio dire comica, mentre gli altri due sono altamente drammatici (ancorché Suor Angelica abbia un finale beffardamente elegiaco), sicché accade che la comicità di questo lavoro venga soffocata, ridimensionata dalla tragicità e dalla cupezza degli altri. Farne l’unico soggetto della serata, come ha fatto l’Auditorium, lo fa risplendere della propria luce e ne rende smagliante l’allegria e la vivacità.

Per chi non lo ricordasse è la storia di una beffa, boccaccesca ma non licenziosa, ambientata nella Firenze medievale, perpetrata da un ribaldo (Gianni Scicchi, appunto) ai danni di una famiglia borghese raccolta intorno al letto del patriarca appena defunto, trepidamente in attesa di riceverne la cospicua eredità.

La musica è strepitosa nel raccontare i sentimenti di questa piccola folla di volta in volta speranzosa, ansiosa, preoccupata, poi delusa e furibonda, poi ancora felice per la trovata del protagonista dell’opera e infine offesa e distrutta dalla tremenda beffa che è costretta a subire. Il susseguirsi di questi stati d’animo, alcuni collettivi e altri individuali, sono la cifra dell’opera il cui acme lirico è costituito dalla famosa aria O mio babbino caro cantata dalla figlia dello Schicchi, Lauretta, che aspetta l’eredità per potersi sposare: O mio babbino caro, / mi piace è bello, bello; vo’ andare in Porta Rossa / a comperar l’anello! / Sì, sì, ci voglio andare, / e se l’amassi indarno andrei sul Ponte Vecchio, / ma per buttarmi in Arno! / Mi struggo e mi tormento, / o Dio, vorrei morir! / Babbo, pietà, pietà!, che consiglierei di ascoltare dalla voce di Anna Netrebko nel brevissimo filmato che si trova in rete.

Axelrod, che si presume essere anche il regista delle minimali ma efficacissime azioni sceniche – che i cantanti sviluppano intorno al podio direttoriale ma anche scendendo in platea, alla ricerca del famoso testamento – sente fortemente quest’opera, si capisce che ce l’ha nelle corde, tanto da trasmettere all’orchestra e al cast dei cantanti tutta l’energia e l’arguzia che Puccini vi profonde.

I cantanti sono ben quattordici, tutti provenienti dalla giovane scuola (creata nel 2008) del teatro bolognese, e fra essi spicca per qualità della voce e per maturazione professionale il baritono Alex Martini nella parte del protagonista.

Non è la prima volta che l’Auditorium propone queste letture dell’opera lirica in forma di concerto: ricordiamo per esempio un ottimo Andrea Chénier diretto da Jader Bignamini nel 2012, di cui dicemmo assai bene in questa rubrica, e l’intero trittico pucciniano diretto da Riccardo Chailly nel 2010 (ma ricordiamo che anche alla Scala, nel 2011, fu dato un Fidelio senza scene).

Sarebbe interessante che lo stesso Auditorium potesse programmarne un ciclo da sviluppare negli anni, se non altro per avvicinare alla lirica quella parte del suo pubblico, calorosissimo e sempre entusiasta, che non la frequenta. Vorremmo in proposito suggerire un espediente che renderebbe lo spettacolo dell’opera messa in scena senza scene ancor più godibile da parte del pubblico: quello di proiettare sul fondale, dietro l’orchestra, immagini tratte da storiche scenografie dell’opera, che illustrino la vicenda mano a mano che essa viene raccontata. Anche una o poche immagini purché aiutino l’ascoltatore ad immergersi nell’atmosfera dell’opera. Potrebbe diventare un format, come si dice oggi, di grande appeal.

Paolo Viola

questa rubrica è a cura di Paolo Viola

rubriche@arcipelagomilano.org



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