26 giugno 2012

musica


 

L’ANDREA CHÉNIER

 

In tempi grami come quello che stiamo vivendo, allestire un’opera lirica “in forma di concerto” – vale a dire con l’orchestra, il coro e i cantanti sul palcoscenico, intorno al direttore, senza scenografia né costumi, senza effetti di luci né una vera e propria recitazione se non il cantare in sé, dietro un leggio – è una gran trovata, nel senso che permette di godere l’essenziale dell’opera evitando di affrontare gli ingenti investimenti ch’essa sempre comporta non solo, appunto, per le scene, i costumi eccetera, ma soprattutto per l’innumerevole quantità di prove che altrimenti precedono ogni “prima”.

Per questo non possiamo che essere grati alla Verdi – o all’Auditorium che dir si voglia – per la tradizione che sta poco a poco costruendo a partire dal bellissimo “trittico” pucciniano (Gianni Schicchi, Il tabarro e Suor Angelica) dato dieci anni fa in questa forma sotto la direzione di Riccardo Chailly (il quale peraltro era in sala, entusiasta, per la prima dell’opera di cui stiamo per dire). D’altronde così l’anno scorso alla Scala fu dato il Fidelio beethoveniano e fra qualche giorno, nel fantastico cortile del Palazzo dei Priori di Viterbo, si ascolteranno le Nozze di Mozart.

Dunque in questi giorni all’Auditorium è andato in scena – senza scena – l’Andrea Chénier di Umberto Giordano e durante l’intera esecuzione ci siamo chiesti come sia possibile che un’opera tanto bella sia così poco rappresentata. Eppure molti non hanno dimenticato – grazie anche a un ottimo disco – la memorabile edizione del 1955 alla Scala con Maria Callas (la contessina Maddalena) e Mario Del Monaco (il poeta Andrea) diretti da Antonino Votto. È un’opera che appartiene al momento magico del verismo e dei grandi capolavori partoriti negli ultimi dieci anni dell’ottocento: andò in scena alla Scala nel 1896, quattro mesi dopo Bohème, poco dopo Cavalleria Rusticana (1890) e poco prima di Tosca (1900) di cui peraltro anticipa i sentimenti, le forti passioni e l’atmosfera politica (con Tosca siamo nella Roma papalina dell’anno 1800, con Chénier nella Parigi della Rivoluzione prima e del Terrore poi, negli anni di poco precedenti). Mentre i libretti dei due capolavori pucciniani sono stati scritti a quattro mani con Giacosa, l’opera di Giordano porta la sola firma del più prolifico Illica, e dobbiamo dire che nonostante alcune pagine di grande poesia, non è fra i libretti più leggibili e riusciti fra gli ottanta scritti dal famoso drammaturgo piacentino.

Venendo all’esecuzione della Verdi dobbiamo fortemente compiacerci nel poter confermare il giudizio più che lusinghiero espresso qualche mese fa sul giovane direttore d’orchestra Jader Bignamini: parlammo di “vera rivelazione” in occasione di un concerto interamente dedicato a Musorgskij, ma non avremmo mai immaginato che le stesse doti di concertatore e direttore avrebbe rivelato poche settimane dopo in un’opera lirica, per giunta tanto difficile come questo Chénier che vede insieme non solo 11 cantanti oltre all’orchestra e al coro – bravissima sempre Erina Gambarini – ma sopratutto un’orchestrazione complessa, innovativa, anticipatrice del linguaggio musicale che di lì a poco sarebbe esploso con Schönberg e Stravinskij (che in quell’anno avevano rispettivamente ventidue e quattordici anni).

Tutto bene dunque? Quasi. Qualche osservazione va fatta. Mediamente di buona qualità i cantanti, fra cui eccellevano – grazie anche alle loro bellissime parti – il baritono Alberto Gazale (il proletario rivoluzionario Gérard che diventa l’aguzzino dell’amico poeta Andrea ma alla fine si ravvede e tenta di salvarlo dalla ghigliottina) e la giovane americana Natalie Bergeron – cui bisognerebbe consigliare un buon sarto italiano – nella parte della eroica Maddalena innamorata di Andrea fino a voler morire con lui (ottima nella prima parte dell’opera, un po’ meno nella seconda). Chi non ha brillato affatto è stato invece il protagonista, il tenore Marcello Giordani, sempre sopra le righe, molto preoccupato di mostrare i muscoli e dunque l’indiscutibile potenza della voce, ma per nulla attento al carattere del suo personaggio: più che un poeta sembrava un boxeur. E di certo non l’ha aiutato il fatto di essere l’unico uomo senza frac fra tutti i musicisti sul palcoscenico (direttore, orchestrali, coristi, cantanti), addirittura con una orrenda cravatta gialla. Diranno i lettori che queste note sugli abiti degli interpreti hanno poco di musicale, è vero, ma quando il musicista recita in un’opera, il suo abito diventa costume e fa tutt’uno con il personaggio.

Dopo aver detto che l’opera data in forma di concerto è magnifica – e può addirittura essere preferibile per chi ama concentrarsi sulla musica più che sulla narrazione – vorremmo osservare che anche in questa forma l’opera ha bisogno di un minimo di regia affinché possa essere compresa e apprezzata dal pubblico. Per esempio quell’andirivieni continuo dei cantanti fra le file dell’orchestra per entrare e uscire dalla scena non va affatto bene, distrae e disturba pubblico e musicisti; molto meglio tenerli tutti seduti sul proscenio e farli alzare di volta in volta quando è il loro momento. E poi, se vogliamo da parte loro qualche accenno di recitazione, che non nuoce affatto, bisogna che non sia limitato alla spontaneità dei più disinibiti ma deve essere un modo coordinato, armonico e condiviso da tutto il cast.

Soprattutto vi è il problema del “racconto” dell’opera. È stato un grande passo avanti aver introdotto la proiezione dei testi sugli schermi posti sopra il palcoscenico (o – come alla Scala – con un display collocato sulle poltrone della fila anteriore) ma, in assenza di scenografia, bisogna che qualcuno ce la descriva a parole, magari quelle stesse parole che si trovano nel libretto e che l’autore usa per indirizzare lo scenografo; dobbiamo almeno capire dove siamo, cosa sta accadendo, e quando sullo schermo compare un verso sarebbe bene che fosse preceduto dal nome del personaggio che lo sta cantando.

Detto ciò non possiamo non riconoscere che aver proposto a Milano un’opera deliziosa, che non si sentiva da anni (per i più giovani è stata la prima occasione per ascoltarla!), e proporla “in forma di concerto”, fa parte di quella straordinaria capacità innovativa dell’Auditorium che rende impagabili le sue stagioni. Con l’Andrea Chénier si è magnificamente conclusa la stagione sinfonica 2011-2012 e ora non c’è che attendere – con il concerto del 5 luglio che vedrà protagonista il pianista-pilota Roberto Cominati di cui parlammo quindici giorni fa – l’inizio della nuovissima e attesissima stagione estiva.

 

Musica per una settimana

 

*venerdì 29, lunedì 2, giovedì 5 e sabato 7 ancora alla Scala le ultime repliche di Manon di Massenet

*sabato 30, sempre alla Scala, prima del Don Pasquale di Donizetti, diretto da Enrique Mazzola, per la regia di Jonathan Miller con le scene e i costumi di Isabella Biwater; le prime repliche saranno martedì 3, mercoledì 4 e venerdì 6, poi continueranno il 9, il 10, il 12, il 13 e il 14. Subito dopo la Scala chiude per riaprire il 27 agosto con la Messa da Requiem di Verdi diretta da Daniel Barenboim, anteprima della tournée ai Festival di Lucerna e di Salisburgo

*domenica 1, nella Basilica di San Marco alle ore 21.15, concerto straordinario di “The Priests” (www.thepriest.com) in onore di San Colombano ed in occasione del XIV centenario del suo arrivo a Milano. Insieme all’Orchestra da Camera Milano Classica diretta da Michele Fedrigotti e al coro Cantus Januae diretto da Luca Dellacasa i tre sacerdoti irlandesi ormai noti in tutto il mondo eseguono: King of Kings, Requerda me, Irish blessing, You raise me up, How great thou art, Benedictus, Hacia Belen e infine Vivaldi (Laudamus te), Schubert (Ave Maria op. 56 D. 839), Franck (Panis Angelicus) e Händel (Hornpipe)

*infine tutti i martedì sera alle ore 21 nel Chiostro del Museo Diocesano – presso la basilica di Sant’Eustorgio con ingresso dal Parco delle Basiliche – concerto all’aperto di musica da camera, in collaborazione con il Conservatorio Giuseppe Verdi, con aperitivo e caffetteria dalle 19 alle 24. Ingresso gratuito.

 

 

questa rubrica è a cura di Paolo Viola

rubriche@arcipelagomilano.org

 

 

 



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