28 febbraio 2017

SCALI, CASERME, AREA EXPO, UNIVERSITÀ, NAVIGLI: BENI COMUNI O BENI PRIVATI?

L’assimmetria di potere: Comune partner ancora debole


Il numero della settimana scorsa di ArcipelagoMilano è stato ricco di spunti di riflessione. Mi ero ripromessa di non scrivere di scali e di aree dismesse almeno fino all’indomani della prossima Delibera del Consiglio Comunale in cui saranno indicate le linee d’indirizzo per le funzioni degli ex scali ferroviari; non prima di avere ascoltato e partecipato agli incontri pubblici in atto, nei Municipi, nelle Commissioni Consiliari, nei circoli culturali e politici. Poi, leggendo quegli articoli, diversi tra loro sia nei presupposti che nelle conclusioni, ho capito che il tema da affrontare con urgenza è altro, e va oltre quello del prossimo Accordo di Programma tra Comune di Milano e Ferrovie dello Stato per il recupero degli ex scali ferroviari.

02grandi08FBIl vero tema è quello dei beni comuni, della necessità di individuare cosa possa essere dato in mano ai privati e cosa debba rimanere pubblico: cioè di tutti, delle città, dei cittadini, delle persone che ne usufruiscono e che, soprattutto, partecipano e contribuiscono al loro esistere.

Beltrami Gadola, Viviani, Monte, Bonomi, Battisti, Bacigalupo, ciascuno con il suo punto di vista e le sue competenze, hanno dato voce al proprio pensiero parlando di scali ferroviari e hanno fornito spunti e dati per un dibattito che si fa sempre più sentito.

Hanno scritto di come il Comune dovrebbe mantenere saldo il timone di una trattativa; dell’importanza di funzioni e servizi; del Piano di Governo del Territorio, che non dovrebbe rimanere estraneo alle soluzioni da dare alla questione del recupero degli scali, come a quella di altre grandi aree dismesse; di volumetrie; di sostenibilità economica dei progetti; di connessioni urbane; di ricucitura di ferite aperte; di verde; di potenziamento dei trasporti pubblici su ferro; di città metropolitana; di legittimità (o di illegittimità) di alcune operazioni; di necessità di creare situazioni vantaggiose per gli investitori privati; di edilizia convenzionata o meno; di danari che non ci sono; ecc …

Al di là delle differenti posizioni assunte, quello che appare evidente e inconfutabile leggendo quegli articoli è il fatto che quando si parla di grandi modifiche urbanistiche, di investimenti in opere pubbliche, sempre entra in gioco il tema dell’intervento dei privati o quello della privatizzazione dei beni pubblici. Di conseguenza sono chiamati in causa meccanismi e relazioni che non attengono più solo alla sfera locale ma che competono, o che dovrebbero competere (e questo è il nodo della faccenda), laddove le Amministrazioni locali non disponessero degli strumenti necessari, allo Stato.

Per questa ragione nel titolo si fa riferimento ad altri argomenti, oltre a quello oggi molto attuale degli scali: perché si tratta di argomenti che hanno in comune progetti molto vasti, diversificati e importanti, che riguardano aree pubbliche e che per essere realizzati hanno bisogno di enormi investimenti economici e del supporto normativo, legislativo, oltre che finanziario, dello Stato. Ecco quindi gli scali come le ex caserme, le università, la trasformazione dell’area Expo, le aree dismesse, le ex cave, i Navigli da riportare alla luce, la rete ferroviaria locale. Per parlare solo di temi metropolitani: altrimenti si potrebbero citare l’acqua, le Ferrovie, le aziende di trasporto pubblico locale e non, gli enti partecipati dei Comuni, i beni immobili e via dicendo.

Sembrano cose molto differenti tra loro ma non è cosi: in tutti i questi casi si sta parlando di programmi e di strumenti in grado di trasformare in meglio, o in peggio, la qualità del nostro vivere. Programmi e strumenti dei quali si dovrebbe sempre fare carico il pubblico; e che con molta cautela dovrebbero essere messi nelle mani del privato che, per sua natura, non può porre in cima alla sua azione, ai suoi interessi, il bene comune.

Invece il meccanismo della privatizzazione come solo strumento che consenta la valorizzazione di aree dismesse, la realizzazione di infrastrutture, il recupero di sistemi idraulici, lo sviluppo di reti di trasporto o di distribuzione di servizi, sembra essere il solo espediente di cui avvalersi. Anche a Milano pare oggi che, senza l’intervento del privato, sia esso FS Sistemi Urbani, Human Technopole, o qualsiasi altro investitore, non sia immaginabile alcun intervento. Non può e non dovrebbe essere così.

Credo molto nell’utilità della collaborazione tra pubblico e privato come incentivo allo sviluppo e all’impresa: anche quando si tratta di interazione con le Pubbliche Amministrazioni; ma se questa collaborazione si deve trasformare in una sorta di esproprio dei beni comuni (che, una volta passati al privato, comuni e pubblici non lo saranno più), produrremo un danno irreversibile non solo ai cittadini ma anche al nostro patrimonio e ai nostri territori che, per usare una metafora, diventeranno come le praterie del Far West.

L’Amministrazione Pubblica è il più grande centro di spesa italiano e, indipendentemente dalla crisi che soffoca la nostra economia, dallo Stato partono erogazioni finalizzate al sostegno di infrastrutture (utili e non), di enti (utili e non), di opere pubbliche (utili e non), di banche (utili e non). Con lo Sblocca Italia lo Stato ha formalizzato impegni per miliardi di euro per sostenere opere e enti che non sempre avrebbero bisogno di sostegno e che sono spesso sostanzialmente inutili, quando non dannosi per i nostri territori, per l’ambiente e per lo sviluppo economico.

Bisognerebbe rivedere da capo le priorità di intervento e di sostegno da parte delle Stato con uno sguardo diverso da quello del coltivare gli interessi di lobby e di casta. Bisognerebbe iniziare a pensare seriamente a cosa ci si riferisce quando si parla di bene comune e di beni pubblici.

Lo Stato crea le città metropolitane? Bene, lo Stato deve sostenerne la nascita e lo sviluppo. Lo Stato chiede ai governi locali sviluppo e trasformazioni urbanistiche? Lo Stato deve farsi carico di rendere possibile tale sviluppo, diventandone il facilitatore in primis e, se del caso, l’erogatore di finanziamenti.

Per tornare al tema specifico degli Scali Ferroviari: non ha alcun senso che delle aree di proprietà comunali, cedute alle Ferrovie dello Stato per fini di pubblica utilità, una volta divenute obsolete e perciò sottoutilizzate dall’Ente che ne ha beneficiato, debbano essere riacquistate a caro prezzo da colui che ne è il legittimo proprietario, consentendo all’ex utilizzatore di trarne grande beneficio economico a discapito della qualità degli interventi. In questo meccanismo c’è un vizio che, se non sapremo e vorremo risolvere, diventerà un’arma a doppio taglio dagli effetti prevedibili: progettualità più modeste, massima attenzione ai tornaconti economici privati e, quindi, occasioni perdute.

Milano, città dell’innovazione, del progresso, dello sviluppo economico, non andrà da nessuna parte se abbandonata a sé stessa. È inutile parlare di Città della Scienza, di Agenzia del Farmaco, di recupero di aree dismesse, di valorizzazione del sistema della rete idrica lombarda e di riapertura dei Navigli (progetto che darebbe alla città un nuovo e grande respiro e molto meno irrealizzabile di quanto sembri), di nuovi poli universitari, se la città sarà lasciata sola, obbligata a cercare aiuto da quei privati che si approprieranno dei suoi beni.

I conti li stiamo già facendo con la sostenibilità economica di un’opera, necessaria ma frutto di un progetto vecchio di anni e divenuto nel tempo sempre più costoso, come la nuova linea della metropolitana M4, e le prospettive non sono belle.

 

Elena Grandi



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