21 febbraio 2017

musica – UNO SCHIFF IMPERDIBILE


Esattamente un mese fa titolavo questa rubrica “Uno Schiff inusuale” e raccontavo del curioso programma in cui Sir András alternava – eseguendole sena soluzione di continuità – le “Invenzioni a due voci” di Bach a piccoli pezzi di Bartók e poi contrapponeva, sempre suonandole senza staccare le mani dal pianoforte, “Su un sentiero di rovi” di Janáček e “Davidsbündlertänze” di Schumann. Confessavo anche “di aver avuto inizialmente qualche pregiudizio negativo ma di avere poi dovuto ammirarne il risultato”.

musica07FBEbbene nella seconda tornata di questo ciclo, la settimana scorsa al Quartetto, Schiff ha convinto del tutto. Forte del successo della prima serata ha replicato con un programma del tutto analogo al precedente e, con grande sicurezza e scioltezza, ha dimostrato che l’intuizione era più che buona, che l’esecuzione è perfettamente coerente all’intenzione, che il gradimento del pubblico è totale.

Il programma della seconda serata prevedeva le 15 Invenzioni a tre voci che Schiff, suffragato da Oreste Bossini nel programma di sala, chiama “Sinfonie” sebbene nel primo manoscritto bachiano del Klavierbüchlein le invenzioni a due voci siano chiamate “Praeambuli” e quelle a tre voci “Fantasie”; solo successivamente Bach ha cambiato le denominazioni e tuttavia Alfredo Casella, nella sua revisione, non ha dubbi nel ritenere che siano tutte e trenta “Invenzioni” e aggiunge anche che esse sono “destinate a preparare l’accesso alle ricchezze del Clavicembalo ben temperato”. Anche in questo caso Schiff le ha alternate a pezzi di Bartók e precisamente alla “Suite per pianoforte opera 14” del 1916 e poi alla Szabadban (“All’aria aperta”) del 1926, eseguendo ancora una volta il tutto senza mai staccare le mani dal pianoforte. Nello stesso modo, dopo l’intervallo, ha eseguito una dopo l’altra la Sonata 1.X.1915 (è la data della sommossa di Brno contro i tedeschi) di Janáček e la Sonata numero 1 in fa diesis minore opera 11 di Schumann. Molto coerentemente anche i tre bis che ha dovuto concedere all’entusiasmo e all’affetto del suo pubblico – due brani di Janáček e di Bartók e la quarta “Invenzione a due voci” in fa maggiore di Bach – sono stati scelti fra i pezzi eseguiti nella serata precedente.

Questo programma e questo ciclo si stanno dimostrando molto convincenti. Perché oltre alla scoperta di quel “sottile filo capace di aiutare gli ascoltatori a scoprire il senso più profondo di ciascun pezzo”, hanno messo in evidenza come un’intelligente miscellanea di opere, integrate in un unico “tempo” musicale, può creare un effetto maieutico e ottenere un risultato di gran lunga superiore a quello del semplice e usuale accostamento di pezzi in un programma di concerto. L’ascoltatore è costretto ad assumere un atteggiamento più critico e più attento, ad andare al fondo del significato intrinseco alla musica a prescindere dall’autore, dall’epoca, dallo stile. In altre parole l’ascolto è meno condizionato e più libero, la musica assume maggiore autonomia rispetto al contesto e noi ci ritroviamo più aperti e ricettivi.

Tra Bach e Bartók passano duecento anni, e mettere insieme due modi tanto diversi di intendere la musica e anche di eseguirla (non si dimentichi che Bach scriveva per il clavicembalo o il clavicordo mentre Bartók disponeva del moderno pianoforte da concerto), è un’impresa non facile. Occorre trovare un suono e un fraseggio che consentano di svelare le diverse personalità dei due autori e insieme di fonderle in un’unica atmosfera. Dite poco. Occorre anche mettere in evidenza le ragioni comuni e universali – siano esse didascaliche, o emotive, o semplici suggestioni – che sono alla base di composizioni diverse evitando le contraddizioni e le contrapposizioni che farebbero stridere l’insieme. Schiff ci è perfettamente, oserei dire magicamente, riuscito.

Inutile dire che siffatta operazione aveva bisogno che esistesse a priori una terra di cultura  comune agli autori prescelti, che in questo caso sembrerebbe essere quell’Europa centrale che si distende fra i bacini dell’Elba e del Danubio e si sviluppa fra la Turingia, dove è nato Bach, e il Banato che ha visto nascere Bartók (più precisamente in un paese che allora era ungherese e si chiamava Nagyszentmiklós mentre oggi è rumeno e porta il curioso nome di Sânnicolau Mare, San Niccolò Grande) e comprende la Sassonia patria di Schumann e la Moravia dove è nato Janáček. Lo stesso mondo in cui hanno vissuto Liszt e Wagner e che András Schiff, nato a Budapest, conosce tanto bene da esserne oggi uno dei maggiori conoscitori e interpreti.

Adesso non ci resta che attendere il terzo e ultimo appuntamento di questo ciclo, il 9 maggio (il programma prevede una miscellanea degli stessi autori), con la sicurezza che sarà un concerto imperdibile.

***

Si sta diffondendo un fenomeno musicale abbastanza nuovo per Milano, di cui tempo fa in questa rubrica avevamo segnalato gli esordi: l’opera lirica in formato ridotto, vale a dire contenuta nel tempo di poco più di un’ora, eseguita con pochi strumenti e con le sole voci più importanti, in ambienti non dedicati come i teatri ma capaci di creare suggestive atmosfere.

Due gruppi artistici vi si stanno specializzando: la Compagnia Fuori Opera, che ha già realizzato una decina di titoli e li ha portati dal MA.MU. (dove hanno esordito sei mesi fa e dove continuano a portarvi deliziosi spettacoli ogni mese) alla Sala Sironi del Palazzo dei Giornali, passando attraverso Club privati milanesi e il Festival di musica e cultura ebraica di Pisa; e ora anche la Pocket Opera della Dual Band che ha esordito l’altra sera nel mezzanino del Passante Ferroviario di viale Molise.

Fuori Opera è stata creata dalla regista Altea Pivetta (inizialmente con il supporto di Lorenzo Arruga) e dal direttore musicale Andrea Gottfried e vi si esibiscono frequentemente, come nell’ultimo “Elisir d’amore” di Donizetti, la soprano Mariacristina Ciampi, il tenore Filippo Lyubomirov, il baritono Fabio Midolo e il basso Filippo Rotondo; Pocket Opera è guidata dalla coppia Anna Zapparoli regista e Mario Borciani direttore musicale i quali la settimana scorsa hanno messo in scena “La serva padrona” di Pergolesi con la soprano Clelia Intorre e il baritono Lorenzo Bonomi nelle parti principali e Federica Zoppis al pianoforte e al cembalo.

Sono opere in formato “da camera”, realizzate con grande cura e forte passione da musicisti mediamente giovani e spesso bravissimi, destinate al pubblico che pur non essendo un habitué della Scala ama la lirica e trae grandissimo godimento ascoltandola in modo informale vis-à-vis con gli attori/cantanti e con gli strumenti che li accompagnano. Provare per credere.

Paolo Viola

 

questa rubrica è a cura di Paolo Viola

rubriche@arcipelagomilano.org

 

 



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