15 febbraio 2017

sipario – DAL FANTASMA DELL’OPERA ALL’OPERA “FANTASMA”?


Dopo aver incontrato molti protagonisti del teatro “giovane”, è interessante considerare come sia proprio la generazione dei teatranti che abita un mondo sempre più tecnologico, moderno e digitalizzato, tema profondamente la smaterializzazione 2.0.

sipario06FBPur non potendosi considerare “nativi digitali” i trentenni di oggi vivono in un mondo sempre più astratto, immateriale, effimero, evanescente: si innamorano sui social network, leggono libri fatti di pixel, lavorano in uffici virtuali e fanno la spesa a distanza. Forse non saprebbero più accettare un mondo senza e-mail, What’s App e Amazon, ma hanno rinunciato per sempre a molti aspetti concreti della quotidianità.

Ebbene, dove si colloca il teatro in questo panorama fumoso? Come fa a sopravvivere una forma di “intrattenimento” che ci costringe ancora a uscire di casa, provando il brivido di sederci in una sala affollata di nostri simili, obbligandoci all’immobilità, alla concentrazione e a una partecipazione non limitabile a un “Like” o a un “emoticon”?

Quanto manca perché il teatro si trasformi in un prodotto da studio televisivo, trasmesso esclusivamente in streaming e indipendente da qualsiasi referente fisicamente presente e partecipe al suo estemporaneo divenire? Non è un puro gioco intellettuale ma una domanda che preoccupa davvero gli amanti di questo mondo magico.

A voler ben guardare, nella moderna babelica mescolanza di linguaggi, che confonde realtà e spettacolo, posa e gesto spontaneo, il teatro è ancora dotato di una sua fisionomia riconoscibile, anche quando vuole essere sperimentale e aperto alle interferenze del mondo circostante. Conserva una dimensione spaziale e temporale riconoscibile, che lo rende “situazione” entro la quale svolgere una riflessione e collocare significati. Il teatro è “luogo” che trascende l’architettura e si crea ovunque sappia ritagliare una parentesi di sospensione dal normale scorrere della quotidianità indifferente, richiamando gli spettatori alla consapevolezza di assistere a un estratto di realtà sublimata.

È un contenitore di performance, che platonicamente si fonde col suo contenuto, ha dei confini fisici e ideali tanto più necessari quanto più trascendibili: i concetti di palco e platea continuano a esistere come chiave per rendere possibili le continue infrazioni della “quarta parete”, ma anche come formula magica distanziante per ritrovare la sicura consapevolezza della propria realtà. Lo spazio teatrale offre il privilegio di addentrarsi temporaneamente in una realtà “altra”, sospendendo la propria identità (gli attori lo fanno recitando, gli spettatori immedesimandosi nei personaggi), conservando però una via di fuga e di ritorno al proprio sé (basta togliere la maschera o veder calare il sipario).

È un’evasione controllata, un tenersi sulla soglia tra sé e altro, per poter sentire contemporaneamente il suono delle corde che vibrano nell’uno e nell’altro, e amplificare la propria esistenza in quella rappresentata sulla scena. Qualcosa di molto diverso da ciò che accade al cinema, dove ci abbandoniamo senza riserve a un’irrealtà tanto lontana da noi da non essere neppure confondibile con la vita vera (e proprio per questo ci piace).

Il teatro va riconosciuto quantomeno il merito di rivendicare orgogliosamente la sua natura di arte, senza la pretesa di dissimulare la finzione, resistendo alla assumere la forma ibrida (e ingannevole) del “reality show”. È vero perché affronta temi reali e credibili, perché è “fatto” col corpo, con la materia, perché è un dialogo “agito” tra da persone reali, fisicamente presenti e partecipi di uno stesso “momento”.

È per questo che, mentre di fronte a uno spettacolo televisivo lo spettatore spera nel colpo di scena che sposti l’equilibrio dalla componente “show” a quella “reality” (amplificando al tempo stesso l’effetto “divertimento”), a teatro nessuno spera nell’imprevisto. Non solo perché ogni performance è necessariamente unica e basata su una materialità viva che si crea sotto lo sguardo dello spettatore (che cosa c’è di più vero di attori in carne e ossa che agiscono sulla scena e interagiscono col pubblico?) ma anche perché lo stupore deriva da una scoperta tutta interiore: perdersi nello spettacolo, scoprirsi coinvolti, ritrovarsi in se stessi ma in qualche modo diversi.

Allora forse vale ancora la pena di rinunciare ogni tanto all’asocialità dei social, alla trascendenza della Rete, all’astrazione della cultura “digital”, per provare il brivido insolito di sedere su poltrone di velluto, battere le mani, respirare nel buio della sala, stando attenti a che il battito del proprio cuore non disturbi gli attori.

Chiara Di Paola

questa rubrica è a cura di Domenico G. Muscianisi e Chiara Di Paola

rubriche@arcipelagomilano.org



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