14 febbraio 2017

musica – UN IMBIANCHINO ALLA CORTE DI SPAGNA  


 

Grande impegno della Scala per quella che il sovraintendente Pereira considera “la più mirabile delle opere di Verdi“, eppure alla prova dei fatti priva di quella tensione rappresentativa che sola riesce a realizzare la magia dell'”evento lirico”. Per molti melomani verdiani Don Carlo è la più compiuta espressione del genio musicale di Busseto, che non perde nulla della drammaticità musicale del repertorio principale ma che attinge a pieno all’aura della cultura europea: tedesco il dramma di Schiller a cui si ispira il libretto, spagnola l’ambientazione e la storia, francesi i librettisti e l’Opera di Parigi il teatro per cui fu scritta; ma anche italianissima, per l’ulteriore testimonianza dell’impegno civile di Verdi che ancora una volta si appassiona alla lotta dei popoli per la libertà e si rivolta contro il predominio clericale (la potentissima imprecazione “Dunque il trono piegar dovrà sempre all’altar!“).

musica06FBAbbiamo assistito alla settima rappresentazione: che inizia male, con un refuso imperdonabile nella locandina, dove campeggia la “settimana rappresentazione“. Sfogliamo il programma e anche qui è tutto un tirar via: come quando nell’esegesi critica di Claudio Toscani, nella descrizione della grande scena del terzo atto tra Filippo e il Grande Inquisitore leggiamo che sarebbe quest’ultimo a chiedere al padre di uccidere il figlio Carlo e non Filippo a chiedere l’assoluzione per ciò che ha in mente (“se il figlio a morte invio, mi assolve la tua man?“), in cambio della quale (“ovunque avrà vigor, se sul Calvario l’ebbe“) l’Inquisitore chiede la vita del Marchese di Posa.

Per Myung-Whun Chung Don Carlo è “la Bibbia dell’opera italiana“: da qui la sua scelta, fedele a quella di quarant’anni fa di Abbado, di mettere in scena la monumentale versione integrale in cinque atti che Verdi aveva scritto per adeguarsi ai canoni del Grand Opera francese in occasione della prima rappresentazione a Parigi, ma che poi ragionevolmente ridusse a quattro per la versione italiana (Bologna 1883). Sul sinfonismo orchestrale della lettura di Chung nessun appunto, anche da parte di chi ha nell’orecchio le mirabili edizioni discografiche di Solti e Von Karajan: una delle componenti migliori di questa rappresentazione. Ma per la riuscita di una rappresentazione lirica occorre che avvenga il miracolo di una partecipazione all’evento di tutte le componenti, dal canto alla regia, dalle scene ai costumi.

Fra i cantanti è mancata la drammatica personalità della Contessa d’Eboli (Callas, Bumbry), la struggente femminilità di Elisabetta, l’ardore tenorile di Carlo; si salvano il Rodrigo del baritono Simone Piazzola e, soprattutto, l’ennesima performance di Ferruccio Furlanetto, che dal 1986 porta nel mondo la sua grande interpretazione di Filippo II.

Ma è sulla regia che vogliamo soffermarci, la regia che ha riproposto tal quale la messinscena di Stein per Salisburgo che, dopo soli tre anni, calata nel palcoscenico scaligero, rivela tutta la sua povertà e pochezza di idee. Nella parte seconda del terzo atto – la cosiddetta “scena dell’autodafé” – la forma diventa sostanza: la spettacolarità scenografica e la grandiosità musicale e coreografica sono infatti per l’intera opera (come già per Aida) il suggello di garanzia per l’appartenenza a un genere e a un’epoca nella quale il melodramma era la forma di rappresentazione corrispondente a quello che oggi chiamiamo “spettacolo popolare” (per intenderci, Sanremo). “Modernizzare”, attualizzare questa componente del melodramma è oggettivamente la sfida più importante e più interessante per la cultura registica, che ormai da alcuni decenni si cimenta con la produzione di spettacoli lirici. Ebbene, questa versione del Don Carlo, significativamente proveniente dal tempio della ricerca “innovativa”, manca clamorosamente l’obiettivo.

Pur ancora ben lontana dagli attuali eccessi minimalistici che impazzano (è ben il caso di dirlo) sui palcoscenici mitteleuropei, l’allestimento di Stein si proponeva l’impossibile coesistenza tra soluzioni “veristiche” e figurazioni appartenenti al gusto estetico contemporaneo. Salvo alcuni rari momenti felici, quali ad esempio la figurazione nella scena della “Canzon del Velo” (i veli bianchi con cui si ricoprono le damigelle nerovestite), è tutto un susseguirsi di ambientazioni incolori, appena interrotte da “pennellate” spagnoleggianti che fanno l’effetto dell’intervento di un imbianchino al lavoro nella corte di Spagna: perdonateci la battuta, ma la collocazione del monologo di Filippo nel suo “Gabinetto“, prescritta dal libretto, non pensiamo autorizzi ad allestire tale spazio come una latrina, con i muri grigiastri e un basamento di mattonelle bluastre!

L’inattendibilità di questo allestimento tocca il suo apice, come dicevamo, nella grande scena dell’Autodafè, dove si ammassano soluzioni scenografiche indecorose (il palco ligneo “stile Le-Roy-Merlin”), le improbabili ambascerie cinesi (giustappunto nell’Impero su cui “non tramontava mai il sole“?!?), gli eretici inviati al rogo vestiti come dei Pulcinella napoletani, lo sfondo rosso-fuoco/azzurro-cielo che non avrebbe sfigurato in un défilé di Versace.

Insomma, una ben difficile situazione per chi attendeva con ansia questa occasione: nulla da fischiare ma nemmeno nulla da applaudire appassionatamente. Non è questo che si chiede.

Andrea Silipo

questa rubrica è a cura di Paolo Viola

rubriche@arcipelagomilano.org

 

 



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