14 dicembre 2016

musica – MADAMA BUTTERFLY


Non è pensabile che una rubrica di musica di un giornale dal DNA milanese come il nostro possa lasciar passare Sant’Ambrogio senza esprimersi sull’inaugurazione della stagione lirica alla Scala. Ed eccoci dunque qui ad aggiungere la nostra voce alle mille che hanno commentato in modi assai variegati la prima della Madama Butterfly di Chailly che, come tanti, abbiamo visto in diretta nella versione televisiva.

musica41fbE proprio da qui vorrei partire, dalla regia della ripresa televisiva, che a mio avviso sconta due errori gravi: l’errore di abusare di impietosi primi piani dei volti dei cantanti, mostrando i particolari del trucco, i denti, le rughe, le perle di sudore, l’attaccatura delle parrucche e via di seguito in un susseguirsi di dettagli che non solo rasentano il raccapricciante ma distraggono enormemente dallo spettacolo e dall’ascolto musicale. E l’errore del regista dell’opera – o forse ancor più degli scenografi, costumisti e truccatori – che pensano all’opera vista esclusivamente dalla distanza fra palcoscenico e platea del teatro, dimenticando la ben più vasta platea di quanti vi assistono in diretta su uno schermo talvolta gigante. I poveri cantanti ne escono devastati, violati nella loro privatezza (denti storti, orecchie a sventola, e non dico altro) e l’intera opera cambia prospettiva assumendo una intimità “cameristica” che proprio non le appartiene.

Parliamo anche della presentazione della RAI: vi sembra possibile che a presentare il cosiddetto “evento” siano stati scelti Milly Carlucci e Franco Di Bella? I quali ovviamente non erano in grado di dire alcunché di sensato sull’opera, sulle scelte direttoriali, sulla esecuzione, la regìa, le scene, i costumi, nulla. Vuoto totale. Aggiungiamo la brusca chiusura alla fine dell’opera per dare la solita fastidiosa pubblicità al posto degli applausi e dei commenti e così abbiamo sciupato una delle migliori occasioni per trasmettere in diretta – pare a milioni di ascoltatori, non solo in Italia – un po’ di cultura “alta” italiana.

Venendo all’opera credo sia del tutto inutile entrare nella discussione se sia stato giusto o meno tornare alla prima versione, del 1904, o se questa sia da considerare migliore o peggiore di quella definitivamente licenziata da Puccini nel 1907. Mi sembra ovvio riconoscere che la prima sia in certa misura la più genuina, quella originariamente pensata dall’autore, l’ultima un compromesso, ancorché perfettamente riuscito, resosi necessario per farla accettare da un pubblico ancora molto “verdiano”. Quello che non riesco ad apprezzare è la sempre più frequente affermazione, ribadita in questi giorni da parte di molti critici o ritenuti tali, che la musica di Puccini sia – o rischi di essere – melensa, mielosa, stucchevole e via di seguito con una serie di giudizi che trovo sciocchi ancor prima che sbagliati. C’è un atteggiamento radical-chic in questi giudizi che mi sembra totalmente fuori luogo (e dissento in ciò anche da Claudio Abbado che – come è noto – non diresse mai una nota di Puccini). Il quale Puccini, con Verdi e Rossini – e senza far torto ai Bellini, ai Donizetti e compagnia cantando (è proprio il caso di dirlo) – ha scritto le più straordinarie melodie della storia della musica mondiale e noi italiani dovremmo andarne altamente fieri.

Tutto ciò premesso questa Butterfly mi è piaciuta. Mi è piaciuta nonostante Cio-Cio-San (l’uruguaiana Maria José Siri) abbia faticato un po’ all’inizio a entrare nella sua parte (ma che meraviglia nel secondo atto!); nonostante abbia trovato la voce e la recitazione di Pinkerton (l’americano Bryan Hymel) non del tutto convincente, talvolta leggermente forzata, talaltra un po’ sciatta; nonostante i movimenti di scena – quelli sì – un po’ mielosi e le scene stesse un po’ da cartolina. E sono rimasto incantato dal fascino di Suzuki e di Sharpless, cioè di Annalisa Stroppa e Carlos Álvarez, perfetti da ogni punto di vista. Per non dire di Riccardo Chailly che, oltre ad avere meritoriamente rispolverato la prima edizione dell’opera, l’ha diretta con un rigore e con un lindore sorprendenti. Abituati come siamo ad ascoltare un’opera passionale e paciona che presenta tutti i personaggi come ragionevolmente prigionieri della propria cultura, quasi anticipando il tema odierno della incompatibilità fra diverse religioni, è salutare questa versione che condanna severamente il volgare machismo dell’americano ed esalta l’umanità e i sentimenti della bambina giapponese. È ben più credibile e attuale, ad esempio, di quell’edizione del 1990, diretta da Gianandrea Gavazzeni con la Sandra Pacetti e Michael Sylvester, in cui Pinkerton si presentava come un ufficiale-gentiluomo altero, formale, “naturalmente” ignaro delle umane sofferenze. Chailly ha il merito di averne dato una versione asciutta e spigolosa, di aver scavato senza indulgenza nella dignità e nella sofferenza della piccola geisha.

Più articolato il giudizio sulla coppia regista-scenografo (come sempre è difficile scinderne meriti e demeriti) e cioè su Alvis Hermanis e Leila Fteita che hanno firmato un’opera di grande eleganza formale e di grande impatto visivo ma a mio giudizio poco scavata dal punto di vista drammaturgico e forsanche più cinematografica che teatrale, nel senso che le due dimensioni del cinema hanno prevalso sulle tre del teatro. E poi un eccesso di folklore e l’insistenza sullo stereotipo giapponese a fronte di una minore attenzione all’universalità dei valori e dei sentimenti. Dobbiamo però ricordare che a Milano siamo molto viziati e che spettacoli di così alta qualità si possono criticare quanto si vuole ma è difficile vederne altrove.

Paolo Viola

 

questa rubrica è a cura di Paolo Viola

rubriche@arcipelagomilano.org

 

 

 

 



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