26 ottobre 2016

REFERENDUM: LA FORZA DELLA NOSTRA DEMOCRAZIA

Ecco perché sostengo il Sì


Voterò Sì al referendum perché ho fiducia nella solidità della democrazia italiana e sono convinto che – doppiato il traguardo dei 70 anni – sia giunto il momento di dotarla di un sistema che consenta a chi vince le elezioni di poter realizzare il programma che è stato scelto dagli elettori, per sottoporsi nuovamente al loro giudizio al termine del mandato senza alibi di sorta, che sia il partito al quale sono iscritto (come ovviamente spero), o uno dei suoi avversari. Questo è una garanzia di effettività della sovranità popolare, sovranità finora sempre frustrata dalla scelta di privilegiare il momento della rappresentatività rispetto a quello della governabilità.

08corrado35fbL’obiettivo è fare dell’Italia una democrazia decidente, al pari di quelle dei grandi paesi dell’Occidente con cui il nostro paese si confronta. Una caratteristica che ha sempre fatto difetto al nostro paese, e che è una delle ragioni principali della lunga stagnazione italiana. La riforma persegue questo obiettivo con misure ragionevoli e proporzionate, rafforzando al tempo stesso gli istituti di garanzia (quali Presidente della Repubblica e Corte Costituzionale), il ruolo delle minoranze e la partecipazione popolare.

A chi paventa il rischio di una presunta “deriva autoritaria”, rispondo con convinzione che il rischio maggiore per la sopravvivenza di una democrazia, come dimostra il nostro passato, è la sua inefficienza. Storicamente è stato questo il fattore che ha aperto la strada all’uomo forte. Pur senza arrivare a tanto, la nostra democrazia paga oggi all’inconcludenza dei suoi riti un prezzo molto alto in termini di astensionismo, crescita di populismi e forze antisistema, discredito delle istituzioni democratiche.

L’inefficienza del nostro sistema legislativo è testimoniata proprio dal dibattito sulla “grande riforma”, avviato quando Matteo Renzi andava alla scuola materna (e anch’io nel mio piccolo avevo i pantaloni corti), e mai uscito dalle sale dei convegni o dallo stadio di progetto.

È un dibattito che nel corso dei decenni ha sempre girato intorno a due – tre proposte, che oggi troviamo finalmente realizzate nella Riforma Boschi: la fine del bicameralismo perfetto, la ridefinizione del ruolo del Senato, il ridisegno dei rapporti tra Stato e Regioni. A turno tutte le forze oggi presenti in Parlamento hanno sostenuto queste proposte negli ultimi vent’anni, e quasi tutte in vari stadi dell’iter approvativo della riforma che il 4 dicembre espressamente hanno detto sì alla riforma. Solo il M5S e alcuni gruppi della sinistra radicale hanno sempre e solo detto no. Basterebbe questo a far emergere la strumentalità e il cinismo della posizione di tanti sostenitori del No, pronti ad affossare l’unica riforma sul tavolo, in nome della generica promessa che “poi in sei mesi se ne approva un’altra”, che nasconde in realtà, nella grande maggioranza dei casi, un calcolo politico di corto respiro.

Nel merito, è evidente a tutti che l’efficienza della funzione legislativa è oggi gravemente compromessa, e a questa patologia si supplisce solo abusando di strumenti apprestati per altri scopi, quali decreti legge e voto di fiducia. Questi distorcono la corretta dialettica tra governo e parlamento e sono fonte di critiche da parte delle stesse forze politiche che oggi paradossalmente si oppongono ai correttivi introdotti dalla riforma.

Il superamento del bicameralismo paritario consentirà di accorciare i tempi del processo legislativo e dare un’identità definita al Senato, non più doppione della Camera. Il procedimento legislativo bicamerale resterà solo per le leggi di sistema o che riguardano le autonomie locali (non più del 3% del totale, se guardiamo agli ultimi anni). Il nuovo art. 70, la cui presunta complessità è uno dei mantra dei sostenitori del No, si limita a dire questo, il suo apparente “tecnicismo” (niente che possa spaventare uno studente del primo anno di giurisprudenza) serve a indicare i casi (numericamente molto esigui, come si è detto) in cui resta il bicameralismo paritario.

La scelta dei Senatori, lungi dall’essere un vulnus alla democrazia, è funzionale al ruolo di raccordo tra territori e stato centrale che la nuova camera alta dovrà svolgere. Non li indicherà nessun potere oscuro, continueranno a essere votati dai cittadini, sia pure con elezioni di secondo grado, come avviene in altri paesi europei. Il nuovo Senato sarà il luogo in cui i rappresentanti locali potranno proporre alla Camera leggi relative a materie di interesse locale, mentre l’attuale conferenza Stato Regioni è solo un tavolo di contrattazione, che inoltre esclude i Comuni.

Si ampliano notevolmente gli spazi di partecipazione dei cittadini, con la sostanziale abolizione del quorum se si raggiungono 800 mila firme (ciò costituisce una possibilità in più, giacché il meccanismo resta invariato se si raccolgono solo 500 mila firme). La raggiungibilità del quorum costringerà i sostenitori del No a votare e a confrontarsi. Senza poter contare sull’astensionismo fisiologico, il quorum ci sarà sempre, e ciò rappresenterà una novità dirompente, unitamente all’obbligo di esame delle leggi di iniziativa popolare, con l’impossibilità per le forze politiche di insabbiare i temi controversi senza assumersi responsabilità.

Il fatto che la fiducia al governo sarà accordata solo dalla Camera eviterà l’instabilità politica dovuta al fatto di avere maggioranze diverse nei due rami del parlamento, una costante dell’ultimo ventennio.

La Corte Costituzionale dovrà – se passa la riforma – valutare preventivamente la conformità alla Carta dell’Italicum e di tutte le future riforme elettorali, una garanzia che fino a oggi mancava e ci ha costretto a tenerci il Porcellum per dieci anni. E dunque anche chi dice di votare No per paura del “combinato disposto” agita uno spettro inesistente.

Non è possibile per limiti di spazio addentrarsi ulteriormente negli aspetti di dettaglio, ma concludo dicendo che comprendo i dubbi di chi è indeciso. A questi dico con serenità che quella che voteremo non sarà forse la migliore riforma possibile, ma è la riforma migliore e più condivisa che abbiamo prodotto in trent’anni di tentativi. Una volta approvata questa, saranno certamente possibili correttivi puntuali, secondo quanto l’esperienza concreta mostrerà, come del resto è accaduto per la Costituzione del ‘48. Sempre l’esperienza, in questo caso degli ultimi 30 anni, ci insegna che non è possibile dire altrettanto in caso vinca il No.

Diego Corrado

Segui il dibattito sul referendum costituzionale sulle pagine di ArcipelagoMilano.



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