13 luglio 2016

musica – UN BERLIOZ SPECIALE ALL’AUDITORIUM


Quando nel 1830 Berlioz scriveva la Sinfonia Fantastica aveva solo ventisette anni, Beethoven era morto da tre e Schubert solo l’anno precedente. E tuttavia fra l’uno e gli altri il salto nella impostazione della scrittura – soprattutto nella orchestrazione – e nelle intenzioni musicali è formidabile. Questa Sinfonia, che ha un sottotitolo molto eloquente “Episodi della vita di un artista”, è la quint’essenza di ciò che da allora verrà chiamata “musica a programma” e – da un altro punto di vista – è un tuffo nel romanticismo di gran lunga più ardito di quanto siamo avvezzi a riconoscere nella successiva ondata dei musicisti propriamente chiamati ”romantici” che negli anni successivi, tutti nati intorno al 1810, lavorarono a Lipsia come Schumann e Mendelssohn, o quelli arrivavano dall’Europa orientale come Liszt e Chopin.

musica26FBA dimostrazione delle particolari intenzioni programmatiche e dell’approccio romantico di Berlioz, la settimana scorsa l’Orchestra Verdi  ha proposto all’Auditorium un ascolto alquanto raro dell’opera del musicista francese, facendo seguire alla Sinfonia Fantastica (opera 14) il monodramma lirico “Lélio o il ritorno alla vita” (opera 14.b) che l’autore considerava l’epilogo della sua Sinfonia e voleva che fosse rappresentato di seguito ad essa, come a costituirne un secondo e conclusivo atto. Non solo, voleva che fosse rappresentata con il narratore solo al proscenio mentre l’orchestra, con il coro e i solisti, avrebbe dovuto restare dietro il sipario e apparire solo a opera conclusa (con il sipario che alla fine si apre anziché chiudersi come da ovvia e banale tradizione).

La Sinfonia di Berlioz ha una lunga storia con laVerdi, che la eseguì la prima volta nel 1993 al Conservatorio (non aveva ancora una sede propria), nella sua prima stagione, sotto la magica bacchetta di Vladimir Delman, fondatore con Corbani e primo direttore stabile dell’orchestra. Nei successivi ventitre anni la ha ripetuta altre dieci volte (l’ultima esemplarmente diretta da Oleg Caetani) ma mai accoppiata al Lélio, anche perché né il Conservatorio né il palcoscenico dell’Auditorium ammettevano la presenza di un sipario. In questa occasione il problema è stato infatti risolto con un artificio che si è rivelato delizioso: mentre il narratore, illuminato da una candela, sedeva a un tavolino al bordo della ribalta e i due solisti cantavano nascosti dietro un pannello all’altro lato del palcoscenico, l’orchestra e il coro erano immersi nel buio ed erano illuminati solo i leggii.

Il melologo – declamato dal bravissimo attore appena reduce dal personaggio brechtiano di Mackie Messer al Piccolo (Marco Foschi), intervallato da alcune melodie (possiamo chiamarle canzoni?) affidate a un tenore e a un baritono (rispettivamente Bernhard Berchtold e Thomas Tatzl) e dal classicheggiante commento del coro (come sempre diretto da Erina Gambarini) – racconta l’amore, le pene, i rancori del musicista nei confronti dell’amata, con precisi riferimenti letterari a Shakespeare (“La Tempesta” fu l’opera che fece incontrare Berlioz con l’attrice e futura moglie Harriet Smithson). È attraverso le classiche figure shakespeariane di Orazio, Amleto, Miranda (che rappresenta la leggerezza) e Calibano (la forza oscura che vorrebbe inabissarlo) che l’autore esce dalla propria disperazione e trasforma il dolore in musica (… vivere per me è soffrire e la morte è il riposo! …).

Il tutto è stato concertato e diretto da Claus Peter Flor, uno dei direttori più presenti e amati dall’orchestra e dal pubblico dell’Auditorium, che ha saputo tenere molto bene insieme due opere (una sinfonia in cinque movimenti e un melologo in sei quadri per voce recitante, soli, coro e orchestra) tanto diverse fra loro e creare quell’unità che Berlioz intendeva essenziale per raccontare sé stesso compiutamente. Cosa tutt’altro che semplice considerato che si tratta di musica scritta da un grandissimo orchestratore e giocata su molti piani. Per averne un’idea scorriamo i titoli che Berlioz assegna ai tempi della “Sinfonia fantastica” e ai quadri del “Monodramma lirico”. I primi sono 1. Rêveries-passions (largo, allegro agitato, appassionato assai), 2. Un bal (con il celeberrimo valzer, allegro non troppo), 3. Scène aux champs (adagio), 4. Marche au supplice (allegretto non troppo), 5. Songe d’une nuit du sabbat (larghetto, allegro, Dies irae – con il famoso tema medievale – e Ronde du sabbat), mentre i secondi sono: 1. Le pêcheurBallade imitée de Goethe (andantino, per tenore e pianoforte), 2. Choeur d’ombres (largo misterioso, per coro e orchestra), 3. Chanson de brigands (allegro marcato con impeto, per baritono e coro maschile), 4. Chant de bonheursouvenirs (larghetto un poco lento, per tenore e vari strumenti), 5. La harpe éolienne (larghetto, per clarinetto, arpa ed archi), 6. Fantaisie sur la Tempête de Shakespeare (andante non troppo lento e allegro assai, per pianoforte a quattro mani, coro e orchestra).

È ben difficile immaginare una musica più “a programma” e più “romantica” di questa, e si osservi anche che in quegli anni 1830 e 1831 Wagner non era ancora maggiorenne!

Paolo Viola

 

questa rubrica è a cura di Paolo Viola

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