18 marzo 2015

musica – IL PARERE DEGLI ASCOLTATORI


 

IL PARERE DEGLI ASCOLTATORI

Se non si ha il genio di Michele Serra – che ogni giorno scrive su Repubblica di qualsiasi argomento gli venga a tiro, e sempre con grande freschezza di idee – in una rubrica come questa, ancorché sia solo settimanale, è molto facile ripetersi; per cui chiedo venia anticipatamente se qualche riflessione riecheggia talvolta cose già dette (forse anche perché la lingua batte dove il dente duole!).

musica11FBOccorre distinguere fra i diversi modi in cui fruiamo della musica, ci interessiamo a essa, la esaminiamo, la godiamo, la valutiamo, ne parliamo; e credo che esista un modo molto serio di godere la musica, importante e sottovalutato, che è quello del semplice “ascoltatore”, non dello studioso, del critico o dello storico, ma solo ascoltatore, ancorché capace di un ascolto seriamente consapevole. Parlando di musica colta, per “ascoltatore” non si può intendere chi si avvicina a essa solo per farsi cullare l’orecchio dal suono, o con la banale curiosità di sapere “come va a finire”; si può definire serio ascoltatore solo chi è ben informato su ciò che ascolta, chi pone grande attenzione a ciò che ascolta, chi si impegna a capire il senso di ciò che ascolta. Il quale è – si badi bene – l’unico, vero e autentico destinatario della creazione musicale.

Mentre gli “storici”, persone colte e studiose per antonomasia, non necessariamente sanno ascoltare perché il loro compito è quello di ricostruire circostanze, eventi, vicende che aiutino a capire origine e contesto dell’opera; e mentre i “critici” ascoltano con il preciso intento di valutare la qualità del testo musicale e/o la bontà dell’esecuzione (e tale valutazione non può prescindere dalla conoscenza, dallo studio delle partiture, dal paziente esercizio di comparazione fra diverse esecuzioni), noi “ascoltatori” non abbiamo la minima pretesa di fare i critici né tantomeno gli storici, ma ci limitiamo a esprimere il parere di semplici ascoltatori; i quali non “valutano” ma “commentano”, non “spiegano” ma “raccontano”, non “giudicano” ma “dicono la loro” e talvolta dicono ciò che molti pensano ma non hanno l’opportunità o la sfrontatezza di dire.

Esistono poi diversi modi e approcci per commentare, raccontare, esprimere la propria opinione su ciò che si ascolta, tanto che dopo concerto, quando ancora non è spenta l’eco degli applausi, il commento è diverso quello che si esprime poi in privato fra amici.

Ad alta voce si dice quasi sempre che sono tutti bravi, che la musica è sempre bella, che tutto va bene, e in questa sorta di conformismo eccelle la grande critica musicale, ufficiale e paludata, che – salvo rare eccezioni come quella del noto, stravagante e manicheo critico del Corriere – si prodiga in complimenti per le tutte le star e normalmente considera l’opera o il concerto come semplice evento da “coprire”. Quel tipo di critica spesse volte non riguarda tanto la musica in sé o la sua interpretazione, quanto il “successo” che di norma – fatte sempre le dovute eccezioni, come quella dei terribili loggionisti della Scala – non si nega a nessuno, quasi che criticare un’esecuzione equivalga a mancare di fair play.

A bassa voce, invece, si dicono tante cose che sui giornali vengono taciute, come il diffuso malcontento nei confronti di quasi tutta la musica contemporanea o riguardo quelle regìe che stravolgono il senso originario delle opere liriche, o nei confronti di famosi solisti o direttori che non studiano più e offrono prestazioni da dilettanti ma sono troppo noti perché si osi criticarli.

In altre parole mi sembra che il mondo della musica sia dominato da una diffusa ipocrisia e dalla ferrea regola che non si possano criticare interpreti affermati, né essere irriguardosi nei confronti delle opere dei grandi autori. Sembrerebbe che – rispetto alla critica musicale – siano molto più libere e scanzonate la critica d’arte e quella letteraria che consentono ancora persino le stroncature. Quante volte abbiamo sentito dire che Maurizio Pollini è incappato in una sera no (e sappiamo benissimo che talvolta capita), oppure che Daniel Barenboim non ha studiato abbastanza (capita più spesso), o che di certe opere di Liszt non se ne può proprio più (il che di alcune in particolare è praticamente sempre vero)? Ed è giusto che alla fine dei concerti si applauda sempre e comunque, e che non esistano più né fischi né i buuu?

 

 

 

questa rubrica è a cura di Paolo Viola

rubriche@arcipelagomilano.org



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