12 novembre 2014

CITTÀ METROPOLITANA O CASTELLO KAFKIANO?


In cerca del suo misterioso atto costitutivo la città metropolitana milanese – come il castello kafkiano – è lì a due passi ma hai l’impressione di non arrivarci mai. Del mitico Statuto, infatti, a poche settimane dall’annunciata scadenza del 1° gennaio 2015, ancora non c’è traccia almeno nel dibattito pubblico. O uscirà come il coniglio dal cilindro tra le festività ambrosiane e quelle natalizie o la fatidica data sarà inevitabilmente considerata “ordinatoria e non perentoria” come sempre accaduto con le dieci/dodici “grida” succedutesi al riguardo dal 1990 in poi. Col rischio che il pur volonteroso agrimensore s’incagli tra potenza indecifrabile d’un invisibile dignitario e beghe locandiere di aspiranti alla carica di “addette alla mescita”.

09ballabio39FBL’anomalia del marchingegno elettorale del Consiglio Metropolitano, chiamato in prima istanza a elaborare il testo statutario, è già stata commentata da Felice Besostri come del tutto irrituale rispetto a una normale prassi democratica. Va però aggiunta un’altra evidente anormalità: l’assenza totale di qualsiasi “programma elettorale” con cui candidati e liste prospettassero almeno le linee fondamentali di un possibile statuto. In base a quali idee e proposte, ammesso che esistessero, i “grandi elettori” hanno votato? Al pubblico, già escluso dal suffragio diretto, non è stato dato di sapere salvo essere chiamato ex post a elemosinare contributi nel cappello “open call”.

A meno che si voglia considerare “programma” la slide presentata dal Centrosinistra Più nella conferenza stampa dell’8 settembre, consistente nell’aggiungere la crocetta + a una serie di parole generiche quali libertà, democrazia, diritti, ecc.

Neppure lo svolgimento delle prime due sedute del Consiglio Metropolitano tenutesi l’8 e 29 ottobre ha fornito qualche lume in merito. Nella prima infatti ha prevalso il paternalismo della “unanimità sulle regole” e la retorica sulla missione “costituente” spinta fino alla irriguardosa analogia con la Costituente vera, quella eletta il 2 giugno 1946 a suffragio universale maschile e femminile e composta da ben provati politici e luminosi intellettuali!

La seconda si è persa nelle rituali schermaglie procedural-regolamentari sull’organizzazione di gruppi e commissioni con relativi capigruppo, presidenti e vicepresidenti, nonché la nomina di un Vice-Sindaco Metropolitano al quale ben presto il Sindaco titolare ha scaricato la matassa dei complicati dosaggi partitico-rappresentativi (di provenienza, genere, “sensibilità”, ecc. esclusa la competenza). Solo un accenno, da parte del battagliero consigliere Cappato, all’esigenza che anche il Consiglio Comunale di Milano si occupi della faccenda, dovendosi comunque – se si vuole dar seguito alla volontà di rendere pienamente elettivi gli organi metropolitani – superare il Comune in quanto tale o comunque modificarlo profondamente dovendosi decentrarlo in “zone dotate di autonomia amministrativa”.

Infatti il doppio nodo è proprio questo: A) chi decide che cosa? B) che cosa si decide?

Sul punto A) è ovvio che tutte le istanze del capoluogo siano pienamente coinvolte, ma chi delibera in ultima istanza? Il Consiglio Comunale o il Consiglio Metropolitano? Dalla risposta al quesito dipende se l’istituenda Città Metropolitana sarà sovraordinata oppure, come la vecchia Provincia, subordinata al Comune di Milano. Il destino di una riforma vera e innovativa oppure finta e “gattopardesca” si verifica lì. (Da notare tra parentesi la curiosa situazione di Giuliano Pisapia che in qualità di Sindaco doppio si ritrova nella trama di Arlecchino servitore di due padroni).

Sul punto B) l’oggetto della decisione risiede nella doppia opzione offerta – e direi anche sofferta – dall’art. 22 della legge per le metropoli over tre milioni di abitanti. Le due possibilità sono infatti poste “in alternativa” (ovvero secondo il vocabolario Zingarelli “condizione o facoltà per cui si può o si deve scegliere tra due cose”). Con la prima soluzione il capoluogo semplicemente si scioglie in singoli Comuni. Con la seconda si priva di elementi di autonomia (poteri e risorse non certo aggiuntive bensì “a somma zero”) in favore delle Zone. Quanto basta, oltre alla “cessione di sovranità” sulle questioni strategiche versate nella Città Metropolitana, per renderne ridondante e farraginosa la sopravvivenza. Per non parlare dell’inconcepibile disparità nel diritto di voto che si creerebbe tra milanesi veraci, ariosi e provinciali di cui si è già trattato su queste colonne.

Eppure su questo punto decisivo la reticenza e la vaghezza dominano la scena: nella cupa atmosfera kafkiana di ombre e riflessi diventa difficile misurare concretamente il terreno. Tuttavia una cosa appare evidente e confermata in fase di applicazione: l’inadeguatezza e approssimazione della legge vigente. Viene in mente il curioso destino del decreto Monti (31/10/2012) che conteneva in un’unica vasca sia una misura razionale e legittima (l’accorpamento e dimezzamento del numero delle Province) che un’elusiva e incostituzionale (l’eliminazione dei rispettivi organi elettivi): ci stava il bambino con l’acqua sporca. Ci ha poi pensato la legge Delrio (7/4/2014) a eliminare la prima e a confermare la seconda: salvata l’acqua sporca.

Valentino Ballabio



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