16 luglio 2014

L’AMBIGUO ENIGMA DELLO STATUTO METROPOLITANO


La rottamazione, epifenomeno di ogni comune delitto, evoca l’ansia del castigo, l’ombra del pentimento. Tale oscuro presagio deve aver colto il Legislatore nell’attimo distruttivo della soppressione delle province elettive, comprese quelle neonate e ancora in fasce. Tanto da consentire, non a tutte bensì solo alle nove riconvertite in “città metropolitane”, la possibilità di auto-riprodurre da capo i propri organi elettivi. Con l’accortezza, a scanso di responsabilità e di crisi di coscienza, di affidare alle vittime – attraverso percorsi tortuosi e procedure improbabili – il carico di ridefinirsi, con lo slancio tipico della “sindrome di Stoccolma”, quali enti democratici partecipati e, perbacco, vicini ai cittadini.

03ballabio27FBNon a caso negli scarsi ma significativi dibattiti che hanno accompagnato e seguito – nella nostra realtà milanese – la legge 56 del 7 aprile 2014 il coro politico-istituzionale ha ripetuto con la regolarità del contrappunto armonico il doppio motivo: 1) evviva la città metropolitana (dopo decenni di altrettanto unanime rifiuto e amnesia); 2) grazie allo spiraglio dello Statuto autonomo la vogliamo direttamente elettiva a suffragio universale in primissimo grado! Ma allora se i cittadini delle province “normali” saranno privati del diritto di voto diretto, per quale motivo i cittadini delle province “speciali” (per via del magico cambio di nome) dovrebbero essere privilegiate mediante la possibilità, almeno teorica, di eleggersi Sindaco e Consiglio? Non vale più il principio elementare di “una testa un voto”?

Veniamo allora al nodo interpretativo dell’art. 22 della legge citata, vero capolavoro di ambiguità e “politica” arte del possibile. Qui si aprono due scenari “in alternativa” tra di loro, almeno per quanto riguarda le metropoli sopra i tre milioni di abitanti, come è il caso nostro. Primo scenario: “Lo statuto della città metropolitana può prevedere l’elezione diretta del sindaco e del consiglio metropolitano con il sistema elettorale che sarà determinato con legge statale. È inoltre condizione necessaria, affinché si possa far luogo a elezione del sindaco e del consiglio metropolitano a suffragio universale, che (…) si sia proceduto ad articolare il territorio del comune capoluogo in più comuni. A tal fine il comune capoluogo deve proporre la predetta articolazione territoriale (che) deve essere sottoposta a referendum tra tutti i cittadini della città metropolitana, da effettuare sulla base delle rispettive leggi regionali, e deve essere approvata dalla maggioranza dei partecipanti al voto. È altresì necessario che la regione abbia provveduto con propria legge all’istituzione dei nuovi comuni e alla loro denominazione …

Secondo scenario: “In alternativa a quanto previsto dai periodi precedenti, per le sole città metropolitane con popolazione superiore a tre milioni di abitanti, è condizione necessaria, affinché si possa far luogo ad elezione del sindaco e del consiglio metropolitano a suffragio universale, che lo statuto della città metropolitana preveda la costituzione di zone omogenee, ai sensi del comma 11, lettera c) (di che articolo? n.d.r.), e che il comune capoluogo abbia realizzato la ripartizione del proprio territorio in zone dotate di autonomia amministrativa, in coerenza con lo statuto della città metropolitana.”

Dunque nel primo caso è “condizione necessaria” che il comune capoluogo “si articoli” in più comuni, e dunque obbligatoriamente scompaia essendo inammissibile un comune composto da più comuni per il semplice principio della non compenetrabilità della materia! Pertanto Palazzo Marino ammaini la gloriosa bandiera rosso-crociata e chiuda i battenti. Nel secondo caso invece sembrerebbe ammissibile la compresenza del comune capoluogo, autore della “ripartizione”, con le zone “dotate di autonomia amministrativa”! (Ipotesi quest’ultima accettata dall’assessore Benelli, a giudicare da un accenno raccolto nell’incontro al riguardo svoltosi alla Casa della Cultura il 18 giugno).

Ma ipotizziamo allora gli effetti – dal punto di vista dell’elementare diritto di voto del cittadino – di quest’ultimo scenario. Tre esempi prossimi tra di loro: 1) Il cittadino di Crescenzago avrebbe a disposizione tre schede: per la Zona autonoma, per il Comune capoluogo e per la Città Metropolitana. 2) tre km più in là il cittadino di Sesto San Giovanni avrebbe invece solamente due schede: per il proprio Comune e per la Città Metropolitana. 3) Ancora tre km oltre il povero cittadino di Muggiò avrebbe invece in mano una sola scheda per il suo Comune che ritrovasi nella mitica provincia di Monza e Brianza, irrimediabilmente non elettiva!

Ma – a parte l’assurda disparità e confusione di ruoli e funzioni – in democrazia non dovrebbe appunto valere l’equo criterio di “una testa un voto”?

 

 

Valentino Ballabio

 

 

 



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