22 ottobre 2014

sipario – IL TEATRO DOVREBBE ESSERE COME UNA PLAYSTATION


 

IL TEATRO DOVREBBE ESSERE COME UNA PLAYSTATION

Intervista a Bruno Fornasari

Bruno Fornasari è autore, regista e co-direttore artistico insieme a Tommaso Amadio del Teatro Filodrammatici. Quali sono le linee guida della vostra direzione artistica? Quello che abbiamo fatto sei anni fa, quando abbiamo iniziato, è stato uno screening sul territorio milanese, abbiamo valutato quali erano le sale teatrali della città e che programmazione offrivano, e abbiamo visto che un grosso buco era quello legato alla drammaturgia contemporanea. Per cui abbiamo deciso di fare stagioni principalmente basate su quello. Quindi non un contenitore che avesse dentro anche ogni tanto uno Shakespeare – siamo l’unica sala in Italia Shakespeare-free – ma un teatro dove andassero in scena solo testi scritti negli ultimi sessant’anni. Un’altra cosa molto importante da dire è che, oltre a dare spazio alla nuova drammaturgia, siamo l’unico teatro che fa un workshop conoscitivo per nuovi attori. Per dare l’opportunità, gratuita, a nuove persone e ai neodiplomati di farsi conoscere attraverso tre giorni di lavoro e non semplicemente con un’audizione. Tutto questo riusciamo a farlo con totale libertà visto che l’Accademia, che è subentrata tre anni fa nella gestione amministrativa, non chiede di avere un controllo sulla programmazione.

sipario36Che effetto fa essere due direttori artistici giovani in un paese di dinosauri? Premesso che essere giovani non vuol dire per forza esser bravi, possiamo peró dire che oggi la situazione è talmente in delirio che anche quello che poteva essere definito un “potentato gerontocratico” sta andando in crisi. Per cui credo che da questo punto di vista potremmo essere un’avanguardia.  Ad esempio il Teatro Stabile di Bolzano ha affidato la direzione a Walter Zambaldi. Io credo che nei prossimi anni le cose cambino in questa direzione e spero che, anche in situazioni così potenti come gli stabili, il “giovane” sia uno che ha la possibilità di fare il giovane e non resti bloccato nella burocrazia di queste istituzioni mammut.

Come sarà la stagione 2014-2015 che inizia giovedì 23 ottobre? Ogni anno facciamo una scelta tematica, quest’anno abbiamo una predilezione per testi che parlino di donne o siano scritti da donne, declinato in varie direzioni. Poi ci sono le nostre produzioni, che sono sempre instant play, cioè testi che partono dell’attualità per sviluppare una riflessione sulla realtà contemporanea.

Quest’anno la nuova produzione sarà N.E.R.D.S. in scena a maggio 2015: l’acronimo indica la Non Erosive Reflux Desease Syndrome, la malattia da reflusso non erosiva, ma la parola Nerds si riferisce anche alle persone che hanno una dipendenze dalla tecnologia e il testo, che sto scrivendo in questo periodo, cercherà di far riflettere su quella che a mio parare è diventata quasi una nuova specie, l’Homo Nerds.

Poi abbiamo creato questo format che spinge al massimo la contemporaneità, che tu conosci bene perché hai partecipato l’anno scorso, che è ConTesto. Prendiamo le notizie dall’ultima settimana e le diamo in mano a cinque drammaturghi – ecco, non ci va sempre bene (ride) – accoppiati con cinque registi, e poi gli facciamo preparare dieci minuti di spettacolo, in 24 ore di lavoro con gli attori. Più contemporaneo di così il teatro fa fatica ad esserlo. L’anno prossimo sarà la quarta edizione e ci sarà una versione EXPO, per cui ci saranno solo autori che vengono dall’estero, e registi italiani.

Tu ti senti più autore o regista? Nel senso: parti da un’idea scenica e poi scrivi il testo oppure parti da un testo e poi pensi a come metterlo in scena? Cambia a seconda delle situazioni e sto vedendo che a volte sono bravo a crearmi delle difficoltà da solo. Io cerco di partire da un contenuto che risuona con la realtà più immediata, che sia contemporaneo. E questo complica notevolmente, perché scegliere un tema a monte e poi dover scrivere non è fatto.

È come se ti facessi una commissione da solo. Esatto. Per cui da questo punto di vista ho meno libertà di quella che può sembrare. Però l’approccio principale è quello di cercare di portare un contenuto, una riflessione su un tema, e da questo sviluppare poi lo spettacolo. Quando scrivo mi aiuta pensare a che attori potranno fare quello che scrivo. Io credo molto nella qualità del lavoro degli attori. Credo che nel teatro sia sì importante l’aspetto visuale, però mi diverto di più quando gli attori sono bravi e credibili, rispetto a quando ho solo delle belle immagini da vedere. Certo, l’ideale sarebbe riuscire a sviluppare insieme entrambi gli aspetti, come fa ad esempio Robert Lepage, che però ha il triplo dei nostri mezzi. Anche perché sta in Canada. Ma il mio riferimento è quello.

Com’è secondo te la scena teatrale milanese? Dipende cosa intendiamo. Se intendiamo come proposte al pubblico la scena Milanese è sicuramente molto ricca. Se invece intendiamo un ambiente, una rete di persone che partecipano sia attivamente sia come spettatori allora è un disastro. Ma non è colpa di Milano, è colpa di un paese che non riesce a far sì che gli intelletti collaborino e si sommino, ma li rende sempre alternativi, in conflitto, separati.

Ad esempio a Londra la metro è piana di cartelloni pubblicitari di spettacoli teatrali, a Milano no. E il cartellone non è importante perché ti porta uno spettatore in più, ma perché fa status. Sarebbe bellissimo se anche da noi il teatro venisse visto come una cosa cool, e questo è un discorso che andrebbe fatto a più ampio raggio possibile, con le istituzioni e con gli altri teatri, l’idea dovrebbe essere che uno spettatore che riesci a portare in un teatro è una ricchezza per tutti, perché viene da te ma se rimane contento e passa una bella serata poi la volta dopo viene anche da me. Finché invece rimane una cosa di nicchia questo non è possibile. Ma a volte è colpa anche dei lavori che vengono proposti. Ad esempio girando per i festival si vedono spettacoli di ricerca che però non potresti mai e poi mai portare per una settimana in città.

Ecco, questo è un altro punto che volevo toccare: la ricerca. Sì, vedi, io credo che ci sia proprio un problema di termini: fare “ricerca” è un termine scientifico che descrive qualcosa fatto per qualcuno. In laboratorio ricerchi dei farmaci che poi serviranno per curare delle malattie, quindi spostando il termine in teatro la cosa assurda è che qualcuno faccia pagare il pubblico per assistere a queste “ricerche”. Le ricerche è giusto farle nelle sale prove – così come vengono fatte a livello scientifico nei laboratori – ma poi al pubblico bisogna far vedere il risultato. Io credo che sia veramente arrogante pretendere di far pagare delle persone per vedere uno studio, o per vedere qualcosa di criptico.

Anche perché poi, se si annoiano, non vengono più. Certo. Come dice Mayorga: “il teatro dovrebbe essere misterioso, non criptico“. Ti faccio un esempio: perché nelle case delle persone ci sono tantissime Playstation e pochissimi dvd di spettacoli teatrali? Perché una Playstation è una cosa che può usare un bambino di otto anni, ma che per progettarla c’è bisogno di un team di ingegneri preparatissimi. E anche il teatro dovrebbe essere così: qualcosa fatto con la massima qualità da persone perparatissime, che però può essere apprezzato anche da un bambino di otto anni.

E quindi – in parte mi hai già risposto – come vorresti che fosse il teatro italiano fra vent’anni? Come una Playstation.

Emanuele Aldrovandi

 

 

questa rubrica è a cura di Emanuele Aldrovandi e Domenico G. Muscianisi

rubriche@arcipelagomilano.org



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