8 gennaio 2014

musica – LISSNER O DELL’INNOVAZIONE


 

LISSNER O DELL’INNOVAZIONE, RICORDI E COMMENTI SU TRE PRIME SCALIGERE CONTESTATE, A TORTO O A RAGIONE

Mentre Lissner passa le consegne al nuovo Sovrintendente, la sua vicenda scaligera impone una riflessione generale sull’annoso tema del rinnovamento del melodramma classico, del confronto-scontro fra gli “esperimenti” degli attualizzatori e i tutori della tradizione. Lissner è infatti uno dei più coerenti assertori del primo partito, è arrivato alla Scala con il programma – dichiarato sin dal suo arrivo e puntualmente attuato – di rileggere il repertorio tradizionale trasponendone le tematiche in chiave contemporanea.

musica01FBChe si tratti di un approccio del tutto lecito non è dubbio: basti ricordare, e non sempre lo si fa, che il tema della riambientazione storica ha la stessa età del melodramma, sia pure in termini esattamente opposti: se oggi si vuole attualizzare, allora il problema era quello di non incappare nella pruderie delle classi dominanti e nell’occhiuta censura che sottoponeva i libretti a preventive verifiche di moralità, alias ammissibilità politica. Mozart, Verdi, lo stesso Wagner, per citare solo i maggiori protagonisti della grande storia del melodramma, pur vivendo in epoche e contesti politici diversi, furono più volte “consigliati”, spesso interdetti e, pur di riuscire a far rappresentare le loro opere, costretti a mascherare l’ambientazione originaria dei testi teatrali o letterari a cui si erano ispirati, trasponendoli in epoche e località improbabili, allo scopo di cancellare qualsiasi elemento di attualità e quindi di potenzialità eversiva.

È da questa condizione, storicamente provata dagli epistolari che narrano le traversie e le conseguenti forzature cui si dovette ricorrere, che gli Innovatori di oggi traggono la loro legittimità: se Verdi consentì, senza in fondo tanto soffrirne, a celare ogni sospetto di attualità alla vicenda regicida del Bal Masquè ambientandola in un’improbabile contea di Boston, quanto mai misconosciuta e abissalmente lontana da qualsivoglia monarchia europea, perché oggi sarebbe improprio mettere in scena in modi attuali un complotto rivoluzionario contro il potere costituito, proprio come Verdi avrebbe voluto fare, se gli fosse stato consentito?

Posta in questi termini, non ci sarebbe motivo di indignarsi se, nella produzione scaligera del giovane regista napoletano Michieletto, si fa diventare la scena del primo atto un party elettorale indetto da Riccardo in cerca di consensi, con schermi di computers che riportano sondaggi e cartelloni con scritto “VOTA RICCARDO”… Eppure, lo confesso, alla fine di quell’atto io non solo ho “buuato” ma, per la prima e spero ultima volta, sono andato via, perché l’invadenza della messa in scena e la sua “volgarità” rendeva impossibile ascoltare la musica e il canto. Perché lo stesso effetto non mi ha fatto la Traviata di Tcherniakov che quanto a invenzioni spaesanti non è da meno, dall’affettar zucchine dell’angosciato Alfredo del secondo atto alle “pasterelle” portate in dono alla moribonda Violetta del Terzo?

La risposta la si trova, penso, nella struttura, nell’essenza stessa di questa particolarissima forma rappresentativa che è il Melodramma e che la differenzia da tutte le altre forme teatrali. Il melodramma consiste infatti nel quasi miracoloso coesistere in un unico testo di forme espressive affatto diverse: così come una scrittura orchestrale è il risultato del “concerto” di tanti parti solistiche, così il melodramma fa coesistere una vicenda letteraria, una partitura musicale, un testo canoro affidato a voci soliste e a un coro, e una rappresentazione scenica fatta, a sua volta, dall’interpretazione drammaturgica, dalla scenografia, dai costumi e quant’altro. Allorché questi elementi raggiungono un reciproco equilibrio, pur in termini innovativi, e l’insieme arriva allo spettatore come un tutt’unico armonico e intenso, il godimento è tale che solo una stolida insensibilità può invocare il rispetto della mise en scene tradizionale. Ma quando l’una o l’altra di queste componenti spicca il volo in una “invenzione”, magari ragionata e intelligente, ma che non riesce a trascinare con sé tutte le altre componenti, il magico equilibrio si dissolve e la rappresentazione si destruttura al punto da far apparire “non credibili”, quindi talvolta ridicoli, gli altri elementi, addirittura rendendo non udibile l’esecuzione musicale.

È questo che è accaduto nel Ballo di Michieletto che letteralmente occultò la pur non spregevole prestazione musicale e canora che l’accompagnava. Ed è questo, a mio avviso, che non è accaduto nella Traviata dei giorni scorsi dove, nonostante alcune indubbie sbavature come quelle che ho citato, la rilettura drammaturgica e la sua trasposizione scenica e canora hanno sprigionato una tale energia, una tale verità da trascinare con sé una pur non eccelsa esecuzione musicale: Traviata che intravvede, sin dalla prima scena, il suo futuro di decadenza fisica in Annina, rappresentata come una vecchia “baldracca” dai capelli rosso carota – una vera e propria invenzione che nessuno prima aveva pensato per questo personaggio dal ruolo unicamente accompagnatorio e consolatorio; Violetta che si veste, prima ancora di ascoltare l’amara profezia di Germont (“Un dì quando le ceneri il tempo avrà fugate“) con vestaglia e pantofole come se già il suo rapporto con Alfredo fosse giunto a tale inevitabile sbocco (da cui la straziante ribellione dell'”Amami Alfredo“); Traviata che, prima di cedere al male che di lì a poco la ucciderà, si “autoseppellisce” sotto il grande piumone che nell’ultima scena sostituisce il tradizionale letto di morte. Queste alcune delle “reinvenzioni” che, insieme alla tensione emotiva ai limiti della nevrosi che la Darnau tiene altissima durante tutta la rappresentazione, fanno di questa produzione una rappresentazione di qualità e intensità altissime.

E l’esecuzione musicale? Anche Gatti ha cercato di accompagnare la drammaturgizzazione estrema con alcune scelte dirimenti, quali il ritorno alla tonalità “alta” del finale del III atto, inspiegabilmente modificata da Verdi nella seconda versione e certo più adatta all’atmosfera di desolazione e morte. Tuttavia, certo, non un’esecuzione memorabile: ma, mi si perdoni il paragone dissacrante, di fronte alla grande interpretazione Visconti – Callas, non fece la stessa scelta Giulini nel 1958? Se si vuole trovare un esempio totalmente riuscito di felice innovazione, nella quale tutte le componenti dello spettacolo hanno raggiunto un’eccellenza che a sua volta ne ha esaltato le altre, si deve pensare al terzo dei tre spettacoli che qui ho voluto ricordare: la Carmen di Emma Dante e Daniel Baremboim interpretata da Anita Rachvelishvili (2009): una rappresentazione travolgente, dove il tema della compresenza fatale fra eros e morte coinvolgeva interpreti, orchestra e invenzioni sceniche, senza nemmeno i peccati veniali in cui è incorso Tcherniakov.

Eppure anche a quella Prima i buuu cercarono di sovrastare gli applausi di coloro, ed erano in tanti, che avevano “capito”. Ben strana cosa, questa dei buuu delle prime scaligere. Come si fa, tornando all’ultimo 8 dicembre, ad applaudire l’interpretazione della Darnau e fischiare la regia di Tcherniakov? Come se quella interpretazione si fosse sviluppata da sé e non invece, com’è ovvio, guidata in ogni suo gesto e momento, dall’autore-ispiratore di questa lettura profondamente innovativa. O come, addirittura, se la maestria e l’eccellenza dell’esecuzione canora potesse essere isolata dall’interpretazione scavata e sofferta del personaggio.

Ora che Lissner se ne va, lasciando dietro si sé, come si è visto, luci ed ombre, successi meritati (fra cui il Lohengrin dell’anno scorso) e critiche immeritate, la storia delle reazioni del pubblico che sopra ho ricordato non sembra rivelare una maturazione collettiva e una cultura univoca sul tema del Regietheater (così si chiama, essendo divenuta la regola in Germania e a Salisburgo). Cosicché i nuovi responsabili del Teatro dovranno attendersi nuovi e spesso ingiustificati contrasti. Eppure, a mio avviso, la posizione da assumere – in vista degli innumerevoli tentativi a cui assisteremo nei prossimi anni – dovrebbe essere scontata: detta con la semplicità dello spettatore, non esistono interpretazioni giuste o sbagliate: esistono rappresentazioni belle – talvolta “grandi” – ed esistono rappresentazioni sciatte e superficiali, siano esse nel solco più pedissequo della tradizione o le più innovative e dissacranti.

Quando il “miracolo” della tensione melodrammatica si produce, quando il canto si fa comprensibile e trascinante nonostante non se ne sia capita una parola perché mal pronunciata o perché appartenente a una lingua e a un vocabolario ormai desueti, quando ciò che vediamo sulla scena non ci rende sordi alla musica ma ci fa attenti alle sue pur minime sfumature e viceversa … ecco allora siamo davanti a uno spettacolo degno della grande tradizione del melodramma e di questo magnifico teatro di cui andiamo fieri.

Andrea Silipo

 

 

questa rubrica è a cura di Paolo Viola

rubriche@arcipelagomilano.org



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