14 settembre 2016

musica – MAGÌA DI BERLINO


Trovarsi a Berlino il giorno in cui si inaugura alla Philharmonie l’ultima stagione di Simon Rattle (ma si dovrebbe dire Sir Simon Rattle) con un concerto diretto da lui, è una grande fortuna. Trovare i posti no, si trovano anche all’ultimo momento, su internet e a prezzi molto ragionevoli: il 26 di agosto ho avuto questa fortuna e non me la sono lasciata scappare. I Berliner, al gran completo, eseguivano la Settima Sinfonia di Mahler, fra tutte la meno conosciuta ed eseguita, e dunque il programma si presentava molto invitante nonostante fosse introdotto da un insignificante e inutile pezzo di Pierre Boulez del 1965, Éclat per 15 strumenti.

musica29fb(Proprio tra parentesi, uno di questi strumenti, il pianoforte cui Boulez affida la parte principale, era suonato da una interprete particolare e cioè da Majella Stockhausen, figlia del grande Karl-Heinz, amata anche dal pubblico milanese fin da quando, ancora adolescente, iniziò la carriera di concertista a Milano accompagnando il fratello maggiore Markus che allora suonava il corno di bassetto e che quest’estate, passato alla tromba, ha partecipato al programma dei concerti d’alta quota sulle Dolomiti. Una famiglia straordinaria!)

Prima di entrare nel merito del concerto non posso tacere l’emozione che si prova entrando nel tempio della musica sinfonica, in quella magica sala pentagonale progettata negli anni cinquanta da Hans Scharoun a ridosso del tragico muro, tutt’ora così attuale da sembrare pensata ieri, che a distanza di mezzo secolo sorprende sempre e commuove i visitatori. Vorrei anche segnalare una curiosità molto berlinese. Il taxi che è venuto a prenderci, non solo aveva la radio accesa sulla prima Sinfonia di Brahms (cosa del tutto inusuale), ma l’autista ci ha chiesto subito, dandolo per scontato, se doveva portarci alla Philharmonie: conosceva perfettamente orario e programma, dimostrando quanto a Berlino la musica classica sia di casa e vissuta come patrimonio comune.

Ed eccoci alla Settima, che forse non è il capolavoro di Mahler ma certamente è un’opera che lo rappresenta compiutamente: introversa, concettuale, un po’ rigida, di ascolto laborioso, sembra essere il prologo ai successivi sviluppi della seconda Scuola di Vienna. Mahler era nato nel 1860 e nel 1905, quando scriveva la settima, era nel pieno della sua maturità musicale. Aveva 14 anni più di Schönberg, ne erano passati solo sei dalla prima esecuzione della Verklärte Nacht e ne mancavano sette alla sconvolgente scrittura del Pierrot Lunaire. Queste date – che si intrecciano con le date delle vite di Klimt (1862-1918), di Schiele (1890-1918), di Kokoschka (1886-1980) ma anche di Kandinskij (1866-1944) e di Klee (1870-1940) – spiegano da sole e assai bene le asperità e la complessità del lavoro mahleriano.

Giacomo Manzoni, nella sua “Guida all’ascolto della musica sinfonica”, dice che la Settima “costituisce il compendio e insieme l’acme incandescente del mondo poetico mahleriano ed è opera di straordinaria ricchezza fantastica”. Non si può non concordare con lui, ma bisogna aggiungere che – se è vero che i due Notturni (e cioè il secondo e il quarto movimento della sinfonia) sono altamente ispirati e pieni di poesia (basterebbe ascoltare la pagina cameristica per mandolino, arpa, chitarra e violino del quarto movimento per convincersene) – il primo tempo è abbastanza legnoso, artificioso, quasi contorto, forse anche a causa del tema principale che oserei definire modesto e non propriamente adatto ai grandiosi sviluppi che Mahler ne fa discendere.

I Berliner e Rattle – checché ne abbia detto Isotta in uno sgradevole intervento sul Corriere a proposito della difficile scelta del successore – sono musicisti prodigiosi; sopra di loro si sente ancora volteggiare lo spirito di Claudio Abbado che in quella sala e con quell’orchestra ha trascorso gli anni più fecondi della sua straordinaria vita di musicista. Rattle ne ha raccolto l’eredità seguendone la lezione – perfino dirigendo a memoria, senza manifestare alcuna incertezza, un’opera così complessa – e profondendo nei quattordici anni del suo mandato una immensa energia; quando fu designato direttore dei Berliner, nel 1999, rifiutò di firmare l’incarico finché non ebbe l’assicurazione che l’accordo sul suo nome fosse unanime (l’altro candidato era Barenboim). E quando nel 2002 finalmente vi si insediò – nel frattempo Abbado era stato aggredito dalla terribile malattia che dovette sopportare per tanti anni – esordì proprio con una Sinfonia di Mahler, la Quinta.

L’anno prossimo alla Philharmonie berlinese arriverà il nuovo direttore, il quarantatreenne siberiano Kirill Petrenko di cui si dicono meraviglie. Di lui sempre Isotta, nel citato pezzo in cui tra l’altro sostiene essere l’Orchestra Sinfonica di Chicago superiore ai Berliner (la solita polemica contro Abbado e in adorazione di Muti, una querelle da bar sport cui era molto affezionato) scrisse “lo straordinario Kirill Petrenko, che nel 2013 ascoltai a Bayreuth dirigere una Tetralogia degna di Knappertsbusch, Keilberth e Karajan”; a Milano non è molto conosciuto ma la settimana scorsa Petrenko ha diretto alla Scala la sua Bayerisches Staatsorchester eseguendo i Vier letzte Lieder e la Sinfonia Domestica di Richard Strauss seguiti dall’Ouverture del Tannhäuser di Wagner. Il parere su quella serata è stato unanime: “sublime”. È giovane, avremo modo di sentirlo e di apprezzarlo, non possiamo che augurare a lui e ai Berliner lunga vita e un percorso luminoso.

Paolo Viola

 

questa rubrica è a cura di Paolo Viola

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