21 maggio 2014

musica – TROPPA MUSICA?


TROPPA MUSICA?

 

Domenica scorsa Milano sembrava impazzita; con 25 gradi di temperatura e un sole meraviglioso, la città era piena di animazione per la concomitanza di Piano City con i Musei aperti e semigratuiti, una gran quantità di mercati, mercatini (e anche di miniconvegni preelettorali in sostituzione dei vecchi comizi) e di feste varie – o di “eventi” come si dice – per cui era praticamente pedonalizzato l’intero percorso che dal Sempione attraverso l’Arco della Pace, il Parco, il Castello, via Dante e via Orefici, il Duomo, corso Vittorio Emanuele, piazza San Babila, corso Venezia e corso Buenos Aires fino a Loreto e poi ancora gran parte di via Padova, un unico stradone lungo una decina di chilometri!

musica19FBMentre impazzavano i 320 “eventi” di Piano City che hanno messo in coda e fatto sgomitare una gran quantità di persone (l’anno scorso furono 30.000, quest’anno si ritiene siano stati ancora più numerosi) per ascoltare tutte le possibili contaminazioni fra musica classica, moderna, contemporanea, etnica, leggera, primitiva, jazz, rock, ragtime, e anche improvvisazioni, conferenze, laboratori, musiche “proprie” e “originali” (i generi sono tutti presi, tali e quali, dal programma del festival) con al centro non la musica, ovviamente, ma quello strumento incredibilmente versatile che è il pianoforte. Su questo avvenimento ormai diventato annuale i pareri divergono radicalmente: da una parte c’è chi si entusiasma e gode, dall’altra chi grida allo scandalo per il timore della volgarizzazione e della banalizzazione di ciò che si è abituati a guardare con rispetto e devozione. Confesso che non so da che parte stare, so solo dire che in fondo mi ha interessato poco.

Infatti, a differenza dei più, in quello stesso assolato e caotico pomeriggio sono stato preso da una sorta di ascetico incantamento ascoltando – insieme a tre o quattrocento persone (evidentemente fuor di testa come me) nel silenzio e nella fresca penombra della chiesa di San Fedele, dietro a Palazzo Marino – alcuni Salmi di Benedetto Marcello e alcuni pezzi per organo di Domenico Scarlatti. Un concerto di ottima qualità in un ambiente più che appropriato (la navata unica della Basilica dei Gesuiti è dominata come tutti sanno da un meraviglioso pannello in ceramica di Lucio Fontana), eseguito da perfetti cultori di quel genere musicale tanto straordinario quanto poco frequentato.

Benedetto Marcello era un ricco e aristocratico veneziano (veniva chiamato “principe della musica”) mentre Domenico Scarlatti, figlio di Alessandro, era un napoletano e visse fra Roma, Lisbona e Madrid; ma la cosa curiosa è che i due sono fra loro coetanei e lo sono pure di Bach e di Händel essendo nati tutti e quattro fra il 1685 e il 1686. Metterli insieme in un concerto di musica sacra – soli, coro femminile e basso continuo – è come voler mettere a duro e ruvido confronto la musica (malamente detta) “barocca” italiana con quella tedesca.

Il concerto, penultimo di una piccola stagione dell’Auditorium S. Fedele che si conclude domenica 15 giugno con alcuni Lieder corali di Schubert, prevedeva tre Salmi (i numeri 38, 12 e 8) dell’Estro Poetico Armonico del veneziano – in cui si alternavano una soprano (Beatrice Palumbo), una contralto (Marta Fumagalli), un tenore (Matteo Magistrali) e il coro femminile “dell’Assunta in Vigentino”, sostenuti dal basso continuo a sua volta affidato all’organo (Francesco Catena) e al violoncello (Anna Camporini) – e, fra l’uno e l’altro, la Sonata K.288 e la Fuga K. 41 per organo solo del maestro napoletano eseguiti dallo stesso Catena. Un programma dunque di grande raffinatezza e spiritualità che – ascoltato in una chiesa – sembrava riscattare la volgare sciatteria di quella musica quasi sempre propinata ai fedeli durante i riti post conciliari.

Sappiamo che i testi dei 150 Salmi compresi nel cosiddetto “Salterio” hanno ispirato una gran quantità di musicisti, da Palestrina fino a Stravinskij, e che ciascuno di essi ha assegnato a questo genere musicale significati e identità assai diversi. I 50 Salmi di Benedetto Marcello (i cosiddetti “Salmi di Davide”) hanno tuttavia un carattere veramente speciale, sembrano dare inizio alla drammatizzazione che sarà alla base dell’opera lirica – che, non va dimenticato, nascerà pochi decenni dopo proprio in Italia – assai più di quanto, a mio giudizio, non abbiano fatto Bach o Händel con le Passioni, gli Oratori, le Cantate. Erano mondi diversi, ovviamente: Bach ha vissuto tutta la vita in una cultura luterana mentre gli altri tre, cattolici, sono figli della Controriforma; Bach fece una vita molto riservata allontanandosi ben poco dalla sua Turingia, mentre Händel e Scarlatti hanno girato il mondo; Marcello era un uomo di mondo, avvocato, politico e magistrato, e frequentava quello stesso Vivaldi, di pochi anni più grande di loro, che Bach ammirava moltissimo ma non ha mai conosciuto.

I paragoni sono sempre sbagliati quando si parla di geni così immensi: ma come non riflettere sull’intrigo dei loro rapporti mentre si ascoltano capolavori che ci rimandano agli stessi anni e alle stesse forme musicali?

Finita l’estasi, e ritornati sulla terra, ecco un altro intrigo non da poco: nel 1873, proprio lì in quella chiesa in cui amava ascoltare il suono del grande organo, Alessandro Manzoni cadde battendo la testa e, senza più riprendersi, morì pochi mesi dopo … . E pensando al suo curioso destino mi sono imbattuto, attraversando piazza della Scala, in una folla accalcata intorno ad alcuni musicisti del centro o del sud-america che, con potenti altoparlanti, sparavano ovunque il suono dei loro inconfondibili strumenti tradizionali (etnici?).

Confesso che sono rimasto perplesso senza sapere bene il perché.

 

 

questa rubrica è a cura di Paolo Viola

rubriche@arcipelagomilano.org



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