26 luglio 2017

CHE FARE DEGLI EX SCALI FERROVIARI? MEGLIO NULLA

L'horror vacui del pensiero urbanistico milanese


Cosa fare degli ex scali ferroviari di Milano? Con l’Accordo di Programma recentemente approvato si sono definite molte delle future funzioni, nonché le vocazioni delle singole aree, e a partire da lì architetti, tecnici e politici si stanno garantendo almeno un decennio pieno di dibattiti sul cosa, perché e come fare. E, per i più fortunati di costoro, anche un decennio di parcelle e incarichi.

03origlia28FBVorrei presentare una visione che sicuramente dispiacerà a quanti sono interessati a pilotare quel qualcosa che si dovrà muovere, non importa in quale direzione. Partiamo da una banale considerazione: è giusto investire delle risorse laddove queste servono a soddisfare i nostri bisogni. Bisogni ormai piuttosto complessi che richiedono trasformazioni del territorio, con la destinazione di parti di questo alla produzione di cibo, o a parco, o la costruzione di edifici, di strade e di altre infrastrutture che riteniamo indispensabili per la nostra sopravvivenza.

Sopravvivenza che per attuarsi pienamente deve trascendere il nostro tempo della nostra vita e proiettarsi verso le generazioni future, alle quali dovremmo lasciare un territorio che, pur trasformato secondo i nostri bisogni, lasci anche a loro lo spazio per soddisfarvi bisogni probabilmente diversi dai nostri. Se mi trovo costretto a enunciare tali banalità, è perché tutto ciò non sta avvenendo.

Perché per una sorta di horror vacui se c’è un pezzo di terra che si libera da una funzione precedente subito bisogna destinarlo a qualcosa, che nella bipolarità grossolana della cultura corrente significa o costruirci sopra edifici o farci parchi, come di sicuro accadrà per gli ex scali ferroviari. Bipolarità di comodo, che consente ad ambedue le parti (l’avrete capito, da una parte l’amministrazione pubblica per i parchi, dall’altra le imprese per gli edifici) di non guardare in faccia i veri problemi della città. Che non sono quelli di riusare gli ex scali ferroviari.

Innanzitutto, per quanto estese siano le aree degli ex scali, la superficie occupata da edifici pubblici e privati abbandonati, sparsi su tutto il territorio milanese, è meno appariscente ma ampia (guardate la mappa dell’edilizia abbandonata fatta dal Comune di Milano) quanto quella degli scali in questione. Centinaia di ettari occupati da milioni di metri cubi in stato di degrado e abbandono (palazzi per uffici vuoti, cantieri lasciati a metà, abitazioni, fabbriche) quasi tutti in aree già densamente edificate. Di questi, molti recuperabili a nuovi usi, con un buon risanamento e le necessarie trasformazioni anche ad uso residenziale.

Anche ipotizzando un recupero limitato al 50%, si potrebbe con questo soddisfare l’intera domanda giacente di edilizia economica, creando anche nuove aree a parco pubblico sui terreni annessi. Certo, anche gli scali ferroviari dismessi creano barriere e vuoti insediativi, ma si tratta appunto di aree vuote, neutre, intorno alle quali la città è nel frattempo cresciuta organicamente, non di edifici costruiti meno di vent’anni fa e poi abbandonati, contagiando con il loro degrado tutto l’intorno. Fatevi un giro tra i palazzi vuoti di via Mecenate a qualunque ora del giorno per capire cosa voglio dire.

Ma occuparsi di questo problema, che coinvolge spinose questioni di diritto di proprietà e difficoltà tecniche, è una rogna che nessuna amministrazione pubblica ha voglia di grattare, men che meno le imprese, che preferiscono far lavorare il capitale piuttosto che le persone. E non riempie le pagine dei giornali di affascinanti proposte e progetti. Molto meglio per tutti allora dedicarsi agli ex scali … anche se buona parte dei bisogni ai quali la loro riqualificazione dovrebbe rispondere sarebbero già soddisfatti proprio dal recupero del patrimonio edilizio e fondiario dismesso sparso nella città.

In conclusione, perché non dirottare le nostre energie sul recupero dell’edilizia abbandonata a fini abitativi, unica vera priorità, lasciando gli scali liberi per iniziative future, o installandoci solo quanto necessario ai quartieri circostanti, magari con strutture temporanee?

Faremmo un bel regalo alle prossime generazioni, alle quali lasceremmo meno problemi di degrado urbano da risolvere e la libertà di usare le aree degli scali per nuove priorità e bisogni, probabilmente diversi dai nostri. Senza che debbano per forza accettare ciò che la nostra generazione ha già deciso per loro. So che questo ragionamento è scandaloso, ignora l’Accordo di Programma, le priorità delle FFSS e tutto l’enorme intreccio di interessi finanziari che si è sviluppato sul Progetto ex scali, e non ha alcuna probabilità di essere preso sul serio.

Ma almeno vorrei suscitare il dubbio che la frenesia di rinnovamento progettuale, applicata al territorio e all’edilizia, sia uno strumento solo apparentemente progressista, che andrebbe usato con più cautela, badando bene che risponda ad esigenze davvero prioritarie, perché consuma aree e risorse enormi e se usato male produce danni al territorio che durano secoli. Come è già avvenuto. Aree e risorse comunque limitate, che i nostri figli e nipoti potrebbero voler usare in tutt’altro modo.

Giorgio Origlia

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