19 gennaio 2016

PERCHÈ RIPENSARE IL DESTINO DEGLI SCALI FERROVIARI


La mancata ratifica da parte del Consiglio Comunale dell’Accordo di Programma sugli Scali Ferroviari è stato uno dei pochi scatti di orgoglio di una istituzione, il consiglio comunale appunto, da tempo caratterizzata per la sua sostanziale irrilevanza nei meccanismi decisionali dell’amministrazione pubblica.

Ma veniamo agli scali, nel merito dell’accordo di programma non ratificato. Provo pertanto a sintetizzare le ragioni contrarie a questo accordo con una sorta di decalogo che offro al dibattito così utile alle discussioni di chi è interessato ai destini di Milano su questo settimanale online. Veniamo ai punti:

06spadaro02FB1) Le aree degli scali ferroviari sono un Bene Pubblico, nella disponibilità del Demanio e delle Istituzioni locali di appartenenza. Questo aspetto dirimente è stato completamente dimenticato e nessuno, a cominciare da Pisapia, ha voluto o vuole riportare questo tema al centro del dibattito politico, magari con un confronto aperto con il Governo Nazionale, non solo per gli scali milanesi ma per tutte quelle aree delle città italiane “prestate” alle Ferrovie dello Stato e alle società di diritto privato, per loro aventi causa, inventate in questi anni.

2) L’Accordo di Programma rappresenta quello che si può tranquillamente definire un esempio di imperialismo finanziario-immobiliare ovvero un programma di fusione del capitale bancario col capitale industriale, e il formarsi, sulla base di questo capitale finanziario, di un’oligarchia in grado di condizionare il mercato delle costruzioni per regalarlo a questo o quel fondo di investimento, a questo o quel fondo sovrano, in grado di condizionare lo sviluppo urbano non in base alle necessità del territorio e del suo benessere, bensì sfruttando rendite finanziarie generate con petrolio o profitti di ogni genere.

3) Proprio in funzione di queste logiche imperialiste, l’accordo configura i diversi scali in modo sostanzialmente analogo, per facilitarne la vendita frazionata, l’immediata bancabilità dei diritti concessi e, in qualche modo il parcheggio, viste le condizioni odierne del mercato, presso istituzioni finanziare (fondi) in grado di attendere tempi migliori, non in virtù dei bisogni autentici dei milanesi (edilizia sociale di qualità in zone centrali o semi centrali o funzioni pubbliche inserite al meglio nella mobilità metropolitana), ma dal sordo profitto generabile dagli stessi. Perché, scusate la battuta, forse neanche Pablo Escobar riuscirebbe oggi a comprarli tutti, pertanto meglio ridurre le porzioni come si fa con qualsiasi merce, come nei supermercati si sono inventate le confezioni per single o anziani.

4) Proprio per questo spacchettamento/frazionamento, l’accordo nel suo complesso non produce un disegno strategico per la città, in grado di individuare Porta Romana, perdonatemi il grossolano esempio, come un luogo con una vocazione strategica a verde, prevedendo indici edilizi molto bassi da concentrare invece nello Scalo Farini, visto come luogo della massima densificazione. O, naturalmente, l’esatto contrario di quanto da me esemplificato.

5) L’accordo prevede un enorme consumo di suolo. Io non sono certo un talebano contrario al cemento senza se e senza ma (sono pur sempre un architetto!) ma certo considerare irrilevante per la qualità dell’aria la scomparsa di questi polmoni è una falsità che non aiuta a ri-pensare questi luoghi in un disegno che va ben oltre i confini amministrativi milanesi, dove potrebbero costituire una contropartita più ampia ad auspicabili processi di ri-naturalizzazione del territorio metropolitano a cui sempre di più si deve restituire senso.

6) L’Accordo è condito, dal punto di vista narrativo, da tutti gli slogan e i grimaldelli al servizio della speculazione più ignorante: verde, piste ciclabili, housing … senza alcun momento di discontinuità rispetto al passato. Basta per cortesia!

7) l’Accordo è assolutamente indifferente al resto della città, alle potenzialità offerte dall’invenduto e dallo sfitto, dal patrimonio privato incagliato presso gli istituti di credito. Patrimonio pronto e disponibile per testare le logiche di rammendo delle periferie invocate come cantilena da questa o quella archistar. Indifferente alle realistiche capacità reddituali dei milanesi (non dei calciatori e degli sceicchi, come avviene a Londra dove possono acquistare interi quartieri per abitarli solo nella settimana destinata a fare acquisti in Savile Row). L’accordo è anti-urbano, prefigura modelli insediativi indifferenti al luogo perché concentrati a soddisfare aspettative mediatico-finanziarie quali sarebbero le auspicate repliche di quanto avvenuto a Porta Nuova o CityLife, magari con nuove trovate come campi di grano, anche loro finalmente verticali!

8) L’edilizia sociale è, come sempre, in periferia, sporca, brutta e cattiva. Poco vale sostenere che Scalo Farini è oggi meno attrattivo di Lambrate. Scalo Farini sarà altro, un altro che potrà tollerare solo quote minime di edilizia sociale, quella vera, non la convenzionata, che peraltro potrebbe essere facilmente ricavata da processi di “riconversione” di ciò che già esiste, uffici compresi.

9) L’accordo impoverisce il valore della città esistente, la racconta come inadeguata ai nuovi stili di vita, la demonizza fingendo di risolvere le tensioni e le contraddizioni delle moderne metropoli capitalistiche con nuove espansioni estranee alla modernità che è cosa diversa dal contemporaneo un po’ tamarro che ci propina la stampa di regime.

10) La promessa dell’immediato futuro uso temporaneo dei sedimi degli scali, nuova canzone pre-elettorale, che mette a disposizione del potere un serbatoio enorme di spazi da giocare sul mercato delle associazioni, degli scambi, della partecipazione più o meno democratica, con la scusa che, se ben maneggiati, da questi usi temporanei, si possano ricavare le indicazioni necessarie per il futuro dei singoli piani di sviluppo. Mi pare proprio che manchi una visione.

Che fare quindi? Innanzitutto rivalutare i singoli scali all’interno di una revisione del PGT, per metterli a sistema con le altre aree (Caserme, area Expo, Ortomercato…) che si stanno rendendo disponibili per un nuovo disegno urbano e metropolitano insieme.

Farne oggetto di un masterplan che non può eludere da quanto è già sul mercato: l’enorme quantità di invenduto e di invendibile (per qualità urbana, per prestazioni energetiche e desiderabilità), e la restituzione di senso al patrimonio privato di uffici che non troverebbero ragion d’essere se non di trasformarsi in nuova residenza.

E, per ultimo, quanto già espresso da molti su questo sito: la necessità di una visione precisa, realistica e coraggiosa di quali istituzioni e funzioni strategiche di interesse generale vogliamo insediare o ri-portare in città.

 

Francesco Spadaro

 



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