17 novembre 2015

musica – TRE MAGNIFICI CONCERTI


TRE MAGNIFICI CONCERTI

Eccoci, come promesso, a riferirvi di tre straordinari concerti di natura assai diversa, ascoltati nei giorni scorsi in tre luoghi diversi.

musica40FBComincio dal concerto dell’orchestra Verdi all’Auditorium che – dopo uno di quei pezzi brevi poco comprensibili scritti da Campogrande per l’Expo (che però nel frattempo si era già concluso) – ha molto intelligentemente accostato il Concerto per violino e orchestra di Khačaturian alla Quinta Sinfonia di Šostakovič; due opere scritte rispettivamente nel 1940 e nel 1937, dunque in piena epoca staliniana, poco prima che iniziasse per la Russia la seconda guerra mondiale, da due autori praticamente coetanei (nati nel 1903 il primo e nel 1906 il secondo e morti rispettivamente nel 1978 e nel 1975), entrambi vittime o interpreti (lo sapremo mai con certezza assoluta?) del realismo socialista sovietico.

Considero straordinario questo concerto non tanto e non solo per la rara bellezza dei due pezzi, entrambi nella magica e mozartiana tonalità del re minore, non molto eseguiti in Italia (specialmente il primo, non meno affascinante del secondo che è la composizione più amata del compositore pietroburghese), quanto per la raffinatezza dei due interpreti: il direttore trentaquattrenne Stanislav Kochanowsky, pietroburghese anche lui, e il violinista Yury Revich, ventiquattrenne moscovita. Entrambi molto eleganti sia musicalmente (fraseggi curatissimi e grande attenzione ai particolari) che nei gesti, hanno offerto una lucidissima, nitida e smagliante lettura della musica russa di un periodo complesso e controverso, a distanza di settant’anni ancora in gran parte da decifrare.

Del secondo concerto – con cui Mario Brunello e Andrea Lucchesini al Conservatorio, per la Società del Quartetto, con una sala gremita e un pubblico estatico, hanno completato il ciclo integrale delle composizioni per violoncello e pianoforte di Beethoven – ho ben poco da aggiungere a quanto avevo già espresso in occasione del primo, tre settimane fa, e cioè la sconfinata ammirazione per i due musicisti e per l’idea stessa di realizzare questo ciclo. Vorrei aggiungere che la terza Sonata opera 69 è sicuramente un capolavoro immediatamente riconoscibile come tale (“la più bella ed importante composizione che Beethoven abbia offerto al violoncello e forse uno dei regali più generosi che la musica abbia offerto a questo strumento” dicono Poggi e Vallora), posto com’è nel baricentro della produzione beethoveniana fra la 5a e la 6a Sinfonia e il 5o Concerto per pianoforte e orchestra. Sulle Sonate dell’opera 102, le ultime da lui scritte per questo organico, il giudizio mi sembra più complesso: scritte rispettivamente in do maggiore e in re maggiore, sono due opere di grande spessore e di alta concettualità che tuttavia non mi sembrano all’altezza delle ultime Sonate per pianoforte e degli ultimi Quartetti. Fa eccezione, però, la parte conclusiva della seconda Sonata – e cioè l’”Adagio con molto sentimento d’affetto” e la fuga dell’“Allegro” finale – che, forse per una suggestione dovuta ai numeri (opera 102) e alle date (siamo nel 1815), appaiono come un commovente addio e un altro testamento beethoveniano.

Una interessante novità è quella introdotta nella nuova stagione dalla Società del Quartetto che fa precedere il concerto dall’intervento di un musicologo che presenta – a un alto livello di competenza e di approfondimento – le opere e gli autori in programma; il primo dei due concerti del duo Brunello-Lucchesini fu introdotto da Oreste Bossini, l’ormai mitico estensore dei programmi di sala e autore di quel bel volume sul centocinquantesimo anniversario della Società cui dedicai un numero della rubrica quando uscì in libreria. Il programma del secondo concerto del duo è stato invece illustrato dalla brillante e colta musicologa Gaia Varon che – “a braccio” e con grande raffinatezza – ha condotto per mano gli ascoltatori a scoprire i segreti della evoluzione beethoveniana dal tragico momento del testamento di Heiligenstadt fino alle opere degli ultimi anni. A conclusione del concerto un meraviglioso bis con il Preludio Corale “Ich ruf zu dir Herr Jesu Christ” BWV 639 di Johann Sebastian Bach, scritto originariamente per organo (fa parte della raccolta di 46 Preludi Corali dell’Orgelbüchlein) ottimamente trascritto per violoncello e pianoforte. Serata indimenticabile e grandioso successo.

Infine il récital, nel frattempo diventato “storico”, di Radu Lupu al LAC di Lugano. Qui, dopo aver ricordato che il pianista rumeno che in questi giorni compie settant’anni è una delle grandi personalità del pianismo mondiale – uno degli ultimi grandi maestri nella storia di questo strumento – devo fare alcune considerazioni in merito al programma proposto.

A dispetto della consuetudine, che vuole un programma sviluppato più o meno nell’ordine cronologico delle composizioni, Lupu ha proposto il cammino opposto. Nel primo tempo ha eseguito solo Variazioni (di Brahms, opera 21 numero 1, del 1857; di Beethoven, WoO 80 del 1806; di Mozart, K.573 del 1789) facendoci scoprire come le Variazioni siano lo strumento principe di indagine sul significato della musica – o di tutto ciò che si può costruire intorno a un tema musicale – e per loro natura si presentino come una costruzione cerebrale, una ricerca, un autentico prodotto del “saper fare” nella composizione. Ma quell’andare a ritroso, quel procedere all’inverso tornando indietro nel tempo – da Brahms a Beethoven e poi a Mozart – è stato come risalire il torrente verso la sorgente, compiere un viaggio verso le origini, ritornare alla freschezza dell’adolescenza o alle radici della classicità, spiegandone l’evoluzione e mettendo a nudo l’essenza stessa e la matrice della composizione musicale; per scoprire alla fine come la apparente semplicità della scrittura mozartiana sia stata il seme del futuro e del naturale sviluppo attraverso Beethoven fino a Brahms.

Nel secondo tempo Radu Lupu ha eseguito la Sonata D 894 in sol maggiore di Schubert del 1826 (a metà strada fra il 1789 e il 1857) che ha assunto un significato straordinario; Schubert è stato tirato fuori dalla “line” dello sviluppo per assumere i connotati del cantore isolato, del commentatore fuori campo, ed è diventato la voce dell’interprete che osserva il fluire della storia della musica ed esprime in piena libertà il proprio sentire. Prima il Lupu professionista, che racconta la storia, poi il Lupu che si lascia andare e racconta se stesso. E la “divina prolissità” di Schubert si trasforma, con la magìa di Lupu, nel profondo abisso dell’emozione.

Un programma strepitoso, una grande lezione, una sorta di epilogo (speriamo che duri a lungo!) di una vita interamente dedicata all’interpretazione musicale. Un dono straordinario a un pubblico privilegiato. Bravo LAC, un ottimo e promettente inizio. Per fortuna a pochi chilometri da Milano.

 

 

questa rubrica è a cura di Paolo Viola

rubriche@arcipelagomilano.org

 

 



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