21 ottobre 2015

sipario – AKRŪRA-GAMANAM: DALL’INDIA A MILANO UN VIAGGIO E UNA DANZA ANTICA


 

AKRŪRA-GAMANAM: DALL’INDIA A MILANO UN VIAGGIO E UNA DANZA ANTICA

Gli scorsi 7 e 8 ottobre 2015 un evento unico e straordinario si è svolto a Milano. Al Teatro dell’Arte CRT Milano l’artista, premiata prima ballerina, Kapilā Venu dal Kerala (India meridionale) si è esibita nella sua arte, il nangyar kūthu [teatro delle donne], la versione femminile del teatro indiano meridionale (kūṭiyāṭṭam). La tradizione locale vuole che questa forma drammaturgica, originariamente rappresentata da soli uomini, sia la più antica di tutta l’India: infatti, grande antichità veniva emanata dal palco agli spettatori.

sipario36FBUna grande antichità che non distingue il genere maschile e femminile negli interpreti (condizione pressoché imprescindibile nel nostro teatro occidentale), ma che testimonia una ricerca e una presenza del divino nello spazio performativo. La presenza del divino è rappresentata da un portacandele in mezzo al palco sull’estremità con le tre fiamme accese della triade sacra della religione hindū: la Trimūrti con il creatore Brahmā, il distruttore Śiva e il ricostruttore Viṣṇu, che esercita il proprio potere salvifico per mezzo degli avatāra [discese], tra tutti Rāma e Kr̥ṣṇa. Tanto forte è il sentimento del sacro, che per caso una delle tre fiamme durante l’esecuzione si è spenta e un percussionista molto elegantemente e attentamente senza intaccare la rappresentazione – anzi dando quasi l’impressione che fosse una scelta drammaturgica precisa – ha riacceso la fiamma per tornare alla propria postazione.

Proprio Viṣṇu, e Kr̥ṣṇa sono al centro della serata del 7 ottobre con Akrūra-Gamanam [Viaggio di Akrūra], un episodio del Mahābhārata, la più estesa epica indiana, che si legge nel Viṣṇu-parvan [libro di Viṣṇu] alla fine, quasi in appendice, della grande opera epica. Secondo il tipico meccanismo letterario sanscrito della cornice narrativa e dei racconti didascalici incorporati, l’Akrūra-Gamanam racconta il viaggio di questo ‘buono’ (è il significato del nome Akrūra) membro della famiglia reale reso servitore dal malvagio demone Kaṃsa, sovrano abusivo di Mathurā, verso Ambadī,,dove risiedono i propri nipoti Kr̥ṣṇa e Balarāma, inconsapevoli di essere i predestinati a uccidere il demone per ristabilire l’ordine, restituendo il trono al legittimo sovrano. Kaṃsa conosce, però, la profezia e fa chiamare i due giovani per ucciderli personalmente.

Nel pensiero indiano esistono le corrispondenze micro e macrocosmiche, ogni elemento ha un suo significato letterale e un significato traslato (spirituale). Per questo, il ‘viaggio’ con le novelle incorporate è occasione per preparare lo spettatore alla visione di Kr̥ṣṇa e all’esito favorevole della vicenda; filosoficamente è una preparazione escatologica. Le novelle, come pensieri del viaggiatore, ripropongono i precedenti quattro avatāra (in tutto sono otto terreni + due spirituali) contro la tracotanza dei demoni, i quali ora rapiscono le dee, ora bestemmiano Viṣṇu e cercano di impedirne il culto, ora rubano e nascondono i testi sacri del Veda. Pesce (matsya), tartaruga (kurma), cinghiale (varāha) e narasiṁha [uomo-leone] sono le manifestazioni del dio riordinatore cosmico, prima di arrivare alla «visione di Kr̥ṣṇa », cioè al fatto che Akrūra prevede che quel giovane mandriano inconsapevole sarà l’ottavo avatāra, l’ultimo terreno, di Viṣṇu.

La scena presenta solo il simulacro del divino, i percussionisti ai grossi miḷāvu in terracotta, al più maneggevole iṭaykka (tamburo orizzontale a tracolla) e ai ṭālam (piattini di bronzo), la stessa suonatrice di ṭālam è anche la recitatrice degli śloka [strofe], che forse per rendere più comprensibile agli spettatori italiani sono stati relegati allo śloka di apertura e chiusura, e sostituiti dai sovratitoli in italiano per poter meglio seguire la storia.

Poi c’era Kapilā Venu, nel suo costume tradizionale, il trucco esagerato e la sua tecnica salda ed eccellente negli equilibri, nelle mudrā [gesti] e negli abhinaya [espressioni] per esprimere i bhāva [stati emozionali] e suscitare i rispettivi rasa [succo, essenza, sentimento]. Il corpo parla e racconta senza uso delle parole, la grande capacità della danzatrice di evocare da sola situazioni, rappresentare personaggi diversi umani o animali e persino creare scenografie, come la coppa, poi il fiume, poi il lago, infine l’oceano dove cresce sempre più il Pesce cosmico oppure la sala colonnata del palazzo del demone bestemmiatore, da una cui colonna sorge il narasiṁha punitore.

Un momento che mi ha colpito e ho apprezzato molto è stato il mimo della smisurata crescita di un demone in altezza: la danzatrice non cresce sollevandosi dal basso verso l’alto, ma al contrario prosegue dall’alto verso il basso schiacciandosi; così in realtà abbatte la ‘quarta parete’, sposta il focus del pubblico dall’alto, facendoci vedere dal cielo degli dèi la tracotanza dell’asura [demone] che si avvicina a noi e facendoci sdegnare, proprio come si sdegnavano i deva [dèi] nel racconto.

Un’esperienza indimenticabile di vero teatro totale che nasce più di duemila anni fa, in cui tutti i sensi e la mente vengono avvolti e portati attraverso una danza antica nel viaggio per incontrare Kr̥ṣṇa, fino alla sua «visione», una visione meravigliosa.

Domenico G. Muscianisi

 

questa rubrica è a cura di Emanuele Aldrovandi e Domenico G. Muscianisi

rubriche@arcipelagomilano.org



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