9 settembre 2015

SCALI FERROVIARI E NUOVE FUNZIONI: UNA SCELTA NON CONDIVISIBILE


Per essere perplessi sul futuro urbanistico di Milano sarebbe sufficiente mettere in relazione due articoli apparsi venerdì 24 luglio sulla medesima testata, il Corriere della Sera: l’intervista di Zincone all’urbanista Paola Viganò pubblicata sull’inserto settimanale Sette e l’articolo del giornalista Maurizio Gianattasio, nelle pagine milanesi, relativo all’accordo siglato da Comune, Regione e Ferrovie dello Stato sugli scali ferroviari. Mentre Paola Viganò – vincitrice del Gran Prix dell’Urbanisme et de l’Art Urbaine nel 2013 – evidenziava come un grave errore il non aver realizzato l’Expo in aree dismesse e presso importanti nodi trasportistici già attivi come quello di Rogoredo, nel secondo articolo si dava notizia che presso la maggior parte degli scali ferroviari – Rogoredo inclusa – oltre all’immancabile verde (la passata stagione dei PRU e dei PII ha mostrato che ai cittadini basta promettere verde e alberi e ti puoi permettere di fare qualunque cosa) saranno costruite prevalentemente case, anche nell’accezione, soft e alquanto vaga, di housing sociale.

04vescovi30FBTale prospettiva lascia a dir poco basiti: com’è possibile prevedere in una delle zone più accessibili dell’area metropolitana e dell’intera regione (a Rogoredo confluiscono alta velocità, treni regionali, passante ferroviario, metropolitana) poco più che un insediamento di case?! Speriamo sia un malinteso e attendiamo di leggere i contenuti precisi dell’Accordo di Programma, ma da quanto ha riportato la stampa si potrebbe sospettare che il capoluogo lombardo non desideri o non abbia bisogno di nessun’altra funzione di caratura maggiore, anche considerando, per esempio, che in quasi vent’anni non si è mai trovata una degna proposta per le “funzioni strategiche di interesse generale” previste nel Palazzo di cristallo della ex Innocenti a Lambrate, oggi ridotto a un rudere; ma si sa, come già osservava Levi-Strauss in Tristi Tropici, le città hanno un ancestrale e quasi naturale sviluppo “… in direzione di ponente, condannando così i loro quartieri orientali alla miseria e alla decadenza” (vedi appunto Fiera e Expo…).

Dopo le proposte dello stadio al Portello (con le contraddizioni sottolineate da Luca Beltrami Gadola in un suo editoriale) e del Cerba accanto allo IEO (per i quali vale la pena ricordare che la “E” dell’acronimo ne proietta le relazioni a scala europea) nel Parco Agricolo Sud in fondo a via Ripamonti, per tacere ovviamente dell’allarmante incertezza del post-Expo, è ormai abbastanza chiaro che l’amministrazione ha serie difficoltà a perseguire l’interesse pubblico programmando le grandi funzioni urbane in coerenza con il livello di accessibilità più consono.

E infatti il PUMS ipotizza già una sesta linea della metropolitana per andare a servire forse, un giorno, il futuro Cerba, sul modello di quanto avvenuto a Milanofiori: i privati incamerano oggi il surplus rispetto ai prezzi più bassi di aree periferiche, scaricando sulla collettività i costi del trasporto e gli indispensabili investimenti infrastrutturali, di cui un domani essi acquisiranno anche tutti i vantaggi economici della rendita di posizione.

È possibile che una città come Milano rinunci a stabilire nel suo Piano di Governo del Territorio dove e come sorgeranno le grandi funzioni urbane di portata strategica? Si potrebbe stilare un lungo e imbarazzate elenco di importanti interventi annunciati e poi rimossi in silenzio dall’agenda in questi ultimi anni: la Beic a Porta Vittoria, il centro congressi a Santa Giulia, la cittadella della Giustizia a Porto di Mare, l’università del farmaco e il campus di informatica a Lambrate, il polo scientifico a Bovisa, e altri ancora.

Un conto sicuramente è la flessibilità, indispensabile per attuare un piano cittadino complesso e quanto più condiviso, un altro invece è la mancanza di obiettivi chiari e la costante subalternità del pubblico agli interessi del privato. Da qui deriva probabilmente anche la pressoché assoluta assenza – tanto più drammatica e incomprensibile dopo gli avvertimenti dell’Ocse nel suo rapporto del 2006 su Milano e dopo la crisi iniziata nel 2008 – di qualsiasi reale strategia metropolitana di sviluppo economico, nella discutibile convinzione, o speranza, che i privati, se lasciati ai loro progetti, sappiano agire per il bene collettivo.

Credo che la scrittura di questo importante capitolo nel Piano di Governo del Territorio, composto di distretti specializzati e innovativi, incubatori, co-working, centri di ricerca, trasferimento tecnologico e altro dovrebbe essere invece un impegno centrale per la prossima legislatura. Una questione chiave, che richiede il contributo e l’impegno congiunto di tutti i livelli amministrativi, riguarda anche le modalità di gestione (procedure, responsabilità, fiscalità, agevolazioni …) per la bonifica e il recupero delle aree dismesse: segnalo a tale proposito un interessante intervento di Alessandro Maggioni sulla testata online Gli Stati Generali.

Una nota finale. Il tema delle grandi funzioni strategiche non riguarda solo la questione dell’accessibilità e del recupero di aree dismesse, ma anche il ruolo di questi potenziali motori di sviluppo nella rigenerazione fisica, sociale ed economica delle periferie, possibile ed efficace solo nella misura in cui questi nuovi insediamenti riescono a tessere relazioni con il contesto da riqualificare. Si tratta quindi di pianificare le funzioni in un quadro più ampio di ridisegno dei luoghi. Non c’è spazio per elencare la lunga casistica internazionale di esempi da seguire su questa strada; basti leggere la semplice constatazione di Christopher Alexander nel suo famoso saggio A city is not a Tree del 1966: “ci saranno sempre molti sistemi di attività dove la vita universitaria e la vita della città si sovrappongono: pub affollati, caffè ai tavolini, cinematografi, passeggiate da un posto all’altro. In alcuni casi interi dipartimenti possono essere attivamente coinvolti nella vita degli abitanti della città” (si pensi alla nuova Bocconi).

Ecco perché l’enclave universitaria e scientifica, periferica e autoreferenziale proposta per il sito del post-Expo, risulterebbe un grosso spreco: sarebbe come sradicare e spostare fuori città la Scala di Milano, con la sua piazza, la sua scuola e i suoi laboratori, oppure Galleria Vittorio Emanuele, inseguendo la logica dei business park e dei mall suburbani piuttosto che la ricchezza e vitalità di relazioni, interferenze e sinergie che tali presenze possono contribuire a creare, se sapientemente progettate, nel tessuto urbano.

 

Francesco Vescovi



Condividi

Iscriviti alla newsletter!

Per ricevere in anteprima sulla tua e-mail gli articoli di ArcipelagoMilano





Confermo di aver letto la Privacy Policy e acconsento al trattamento dei miei dati personali



Sullo stesso tema


24 gennaio 2020

SCALI FERROVIARI: TRE NUOVI MASTERPLAN

Emilio Battisti



10 gennaio 2020

SCALI FERROVIARI: TRE NUOVI MASTERPLAN

Emilio Battisti



17 dicembre 2019

SENTENZA SUGLI SCALI E FISCALITÀ PUBBLICA

Roberto Camagni



15 dicembre 2019

SCALI FERROVIARI: TRE NUOVI MASTERPLAN

Emilio Battisti








Ultimi commenti