8 ottobre 2014

sipario – IL TEATRO I COMPIE DIECI ANNI E GUARDA A DOPO L’EXPO


IL TEATRO I COMPIE DIECI ANNI E GUARDA A DOPO L’EXPO

Intervista a Renzo Martinelli

 

Renzo Martinelli è direttore artistico di Teatro I insieme a Federica Fracassi e Francesca Garolla. Teatro I compie dieci anni, è tempo di bilanci o di nuovi progetti? Abbiamo iniziato a pensare alla programmazione del decimo anno con l’idea di festeggiare un compleanno, ma io continuavo a dire “quello che mi preoccupa non è il decimo anno, ma l’undicesimo” e ne sono sempre più convinto. Siamo stati tutti d’accordo nell’evitare “l’autocelebrazione” o la mera retrospettiva, cercando invece di guardare il più possibile al futuro. Cito spesso una frase di Antonio Moresco: “Noi pensiamo ad andare. Saranno gli altri, se lo vorranno, a disegnare le mappe”. È un po’ come dire “iniziamo a lavorare, a fare”, e la linfa di questo movimento è la volontà artistica: ideare, mettere in scena, interpretare, scrivere. Quello di cui abbiamo bisogno è un movimento, non vogliamo rimanere fermi.

sipario34FBCos’è Città Balena?Le nostre stagioni nascono sempre da una spinta teorica, da un tema che si traduce in un titolo e quindi in manifesto poetico. Il manifesto poetico è una tensione del gruppo e ispira la scelta delle nostre produzioni, è un focus da cui nasce l’esigenza di rivolgerci a dei testi o di scriverne di nuovi. Quest’anno abbiamo due titoli: 10anni, per celebrare il nostro compleanno, e Città Balena che dà il nome a un progetto triennale per cui Teatro i si apre anche a luoghi non convenzionali, negozi, laboratori, esercizi commerciai del quartiere, con cui siamo in collaborazione e dove proporremo parte della nostra programmazione. Senza rinunciare alla nostra proposta culturale, sempre legata alla ricerca e alla drammaturgia contemporanea. Il titolo, Città Balena si ispira a una poesia che abbiamo scritto qualche anno fa io e Federica. Scrivevamo: “agli animi burattini/ questa città balena/ al ventre che inghiotte e sputa/ a tutte le erbe sbocciate/ ai denti caduti/ nel tratto di questa terra disinfettata/ a quelli/ a tutti quelli/ che nuotano senza mare/ dedicato a loro”. Per me il teatro che si riduce a un luogo di spettacolo non esiste, il teatro è spazio da abitare, attraversare, è spazio di incontro: per questo abbiamo deciso di uscire di casa e di portare spettacoli in tutto il quartiere.

Quali sono le vostre nuove produzioni di quest’anno? In questi giorni siamo in prova con Magda e lo spavento che è la terza parte della trilogia di Massimo Sgorbani Innamorate dello spavento, incentrata sulle donne di Hitler: Eva Brown, il cane Blondi e Magda Gobbels. Lo spettacolo debutterà all’interno del Fit, il Festival Internazionale del Teatro che si tiene in Svizzera, poi, dal 30 ottobre sarà in scena a Teatro i per un mese. Subito prima andremo a Roma alla Rai e realizzeremo per Il Teatro di Radio Tre – ovviamente in versione radiofonica – tutta la trilogia.

L’altra produzione di quest’anno sarà un testo di Francesca Garolla, Non correre Amleto. Questo sarà il suo terzo testo, dopo N.N.- Figli di nessuno e Solo di me che hanno avuto buoni riscontri nelle stagioni precedenti. N.N.- Figli di nessuno è stato tradotto e proposto in tre teatri all’interno di Face à face – Parole di Italia per scene di Francia mentre Solo di me, che ha già visto una sua versione in ceco, è ora al vaglio della Maison Antoine Vitez per essere a sua volta tradotto in francese.

Come nasce in generale la scelta di un progetto? È una tensione che nasce dal desiderio di indagare il presente, proprio come accade per la scelta del tema e del manifesto che contraddistingue le stagioni. Ad esempio, prima di realizzare Prima della pensione di Thomas Bernhard stavamo indagando il tema della memoria: quanto la nostra storia sia infondo dimenticata, macerie che non sono mai diventate rovine, che non hanno sedimentato in noi, pur avendoci davvero condizionato. Volevamo lavorare su questo, ma non avevamo ancora trovato un testo da mettere in scena. In quel periodo stavo leggendo Bernhard, ho incontrato quel testo e ne sono stato folgorato: parlava del nazismo come se non fosse mai finito, era ambientato negli anni ’70, ma per i protagonisti della pièce il tempo non era mai passato, la memoria condizionava il loro presente ibernandoli nel tempo. Per questo mi è venuta l’idea di non far interpretare i personaggi da attori “in età”, ma di realizzarlo con attori giovani, come se i protagonisti fossero rimasti immobili, fermi in quel tempo che continuano a celebrare. Questo è un buon esempio per descrivere come nasce l’esigenza di mettere in scena qualcosa, di indagarlo.

Sicuramente abbiamo una preferenza, un motore, che ci spinge a lavorare sulla drammaturgia contemporanea, ma cercando sempre quelle che io chiamo “parole che restano”: parole che riescano anche ad avere un carattere universale.

Il Teatro I è identificato come uno dei teatri più “di ricerca” di Milano. Sei d’accordo? Cos’è è per te “la ricerca”? Purtroppo, nel tecnicismo teatrale, “ricerca” può essere solo un’etichetta, ma se, per un attimo, proviamo a fare un ragionamento più ampio, per me, “ricerca” significa provare a far accadere qualcosa, parlare del presente che attraversiamo, indagare nuovi linguaggi, interrogarsi sul pubblico. Tutto il resto è spesso un tentativo di inscatolare. Spesso si dice “teatro contemporaneo” o “teatro giovane”, ma sono definizioni riduttive che a noi non piacciono, perché cercano di ridurre le pulsioni artistiche a mere categorie anagrafiche o stilistiche: compagnie che non riescono a crescere, contesti di programmazione che coltivano “bonsai”, giovani che rimarranno sempre giovani, anche da vecchi. Io penso invece all’origine della parola ricerca, al suo significato: per me la ricerca deve essere una forma di amore e di condivisione, in primo luogo, con lo spettatore.

Secondo te com’è la situazione teatrale italiana? Io percepisco una forte curiosità da parte del pubblico e un bacino di spettatori molto più ampio di quello che vediamo. Eppure spesso il sistema teatrale non è in grado di potenziare le sue proposte a 360 gradi, c’è un tappo, culturale, politico, economico che non permette di crescere e questo è disastroso. La stessa curiosità degli spettatori non viene colta, alimentata, e invece le persone hanno voglia di conoscere, di sperimentare, di provare nuovi linguaggi. Faccio solo un esempio, un poeta ottantenne che ho conosciuto ieri (ndr Lionello Grifo, presente durante l’intervista) ha intercettato un luogo, Teatro i, ha voluto conoscerci, ha provato a indagare quello che facciamo, con semplicità e senza sovrastrutture, con quella curiosità che a volte manca alle stesse istituzioni che si occupano di cultura.

E come vorresti che fosse fra vent’anni? Pensare al futuro è un esercizio che facciamo spesso. Anche nel 2004, quando abbiamo aperto Teatro i, ci siamo chiesti: “Come sarà Milano fra tre anni? Come saremo noi?”. E sono domande che continuiamo a farci: si lavora nel presente per costruire nel futuro. Per Teatro i mi auguro che rimanga un luogo aperto, da abitare, un luogo di creazione. Non vorrei mai accorgermi di aver messo dei paletti, di essermi limitato, mi auguro che tutti quelli che lo attraverseranno possano portare proposte ed energie sempre nuove.

Per quello che riguarda il sistema teatrale in modo più generale sono molte le cose che vorrei, ma a una in particolare penso spesso, vorrei che non mancasse mai il coraggio – degli artisti, delle istituzioni, di tutti coloro che compongono questo sistema difficile e lacunoso – perché a lungo andare il coraggio paga.

Emanuele Aldrovandi

 

questa rubrica è a cura di Emanuele Aldrovandi e Domenico G. Muscianisi

rubriche@arcipelagomilano.org



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