24 settembre 2014

STORIE DI ASSETTI VARIABILI: LA CITTÀ METROPOLITANA


Caro Direttore, penso che ArcipelagoMilano faccia un buon servizio in questo periodo. Bene, ad esempio, che sull’ultimo numero appaiano tre articoli dedicati alla Città metropolitana, e dio sa quanto approfondimento ci voglia per quest’araba fenice (“che vi sia ciascun lo dice, dove sia nessun lo sa”).

07bono32FBDei tre, mi è piaciuto quello di Paola Bocci, che parla anche di un’esperienza fatta nella festa del Partito democratico. Io non conosco minimamente Paola Bocci, ma certo la riconosco; mentre conosco, come tutti, Salvatore Crapanzano (“istruzioni per l’uso“), ma vedo le sue buone intenzioni come uno sforzo – tutto interno alle cosiddette istituzioni, e anche alla pletora di esse – cui io non posso prender parte. Semplificare, certo, è sempre buono e giusto – cioè etico – ma non può essere l’idea di base per il nostro progetto: voglio dire per un progetto civile, al quale tutti ambiscano di partecipare. Tale progetto appartiene pur sempre alla complessità, più che alla semplificazione (che tutti ci attendiamo, peraltro, da chi di dovere).

Quando la Paola Bocci dice che vuole trasformare – anche nella partecipazione – gli spazi in luoghi, offre a me, cittadino, operatore o progettista, un compito preciso eppure ampio, cui io possa dedicarmi con passione. Che commozione può darmi invece un manchevole decreto Delrio, che dopo una elezione di secondo grado, della quale non so nulla, né posso saperlo, produrrà un consesso che stenderà uno statuto di qualcosa cui si dà forma, ma che ancora non ha contenuti? (come giustamente osserva Daniele Comero nel terzo degli articoli citati).

La Città metropolitana ha quindi i suoi confini – quando il progredire della storia vuole che finalmente si tolgano i confini – e questi circoscrivono l’angusta geografia spontanea che si ripropone, o riproduce, in modo autoreferenziale. Che la complessità del reale richieda orizzonti e non confini, orizzonti entro i quali definire o restringere di volta in volta, mi sembra del tutto evidente: a partire, ad esempio, dalle reti di trasporto. E gli orizzonti, se vogliamo atterrarli, sono Ticino e Adda ai lati e le città di corona a nord e a meridione. Senza queste parti della Metropoli lombarda il Duomo sarebbe ancora di mattoni; e senza Lecco, per dire, non ci sarebbe stata la via Spadari.

E alla base di tutto, come sempre, i Comuni; e il municipalismo. Cioè la profondità della nostra cultura, dal Medioevo, a Carlo Cattaneo, alla Costituzione repubblicana. Quella che oggi è chiamata occasione (sia pure con l’intento nobile di fare di necessità virtù) era un tempo qualcosa di più forte, di più necessario e urgente. Sulla soglia degli anni ’60 del Secolo scorso, l’occasione infausta del Decreto Togni che imponeva la città metropolitana assecondando il dominio del concentrico, provocò l’Assemblea dei sindaci che dette luogo al Piano Intercomunale Milanese: il cui cuore o principio era appunto l’assemblea, non il centro studi (che ne sarà del PIM con il nuovo assetto?).

Con tanta tecnica, e così poca politica, oggi, invece, quale è il principio di una realtà che molto viviamo, e poco vediamo? La brutta espressione “geometrie variabili”– tutte le volte che la si usi in riferimento alla politica degli interventi – ha un suo fondamento se la si traduce in geografia e storia variabili: cioè da far mutare consapevolmente (cercando di trasformare gli spazi in luoghi, per dirla con l’amica Paola).

 

Cristoforo Bono

 

 



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