7 marzo 2023

BARBERA E HUANGJIU*

La cucina cinese a Milano (curiosità sui prezzi)


 copertine am (4)

La canzone di Giorgio Gaber Barbera e Champagne,  inno all’amicizia da bar tra diversità sociali: vino popolare ed esclusività francese, può essere rivista sostituendo le raffinate bollicine d’Oltralpe con il modello asiatico che oggi invade anche l’alta cucina (alla faccia del sovranismo alimentare). Il business della ristorazione cinese a Milano conta più di 1300 locali e un +55% di bar gestiti in soli 9 anni.

Il food Made in China, all’inizio poco accettato e guardato con sospetto perché percepito come di basso livello igienico-sanitario, si è poi affermato con la formula vincente dell’all you can eat che, con pochi euro, promette una quantità di portate potenzialmente infinite (senza troppo curarsi delle materie prime).

Il modello della ristorazione milanese di qualità viene oggi replicato da Hujian ‘Agie’ Zhou, imprenditore cinese con laurea  alla Bocconi. Mr. Zhou dalle scienze economiche ha appreso anche l’arte del fashion food, modello alimentare seriale basato più sull’apparire (immagini postabili sui social) che sulla qualità del cibo.

Quando è moda è moda… così il business gourmet bocconiano, partito con l’apertura di una piccola ravioleria nella Chinatown cittadina, si è esteso ad un altro quartiere della città, NoLo, con Le Nove Scodelle, locale con proposte culinarie ispirate alla provincia cinese di Sichuan. Il locale è stato il primo con cucina cinese ad essere premiato (2019) dalla guida Michelin con il Big Gourmand, riconoscimento per i ristoranti con menù al di sotto dei 35 euro.

Una soglia di prezzo che viene ormai abbondantemente superata dai locali cittadini in stile China (sono oltre 1500 in città, inclusi quelli ‘fake jap’) che hanno sostituito involtini primavera, nuvole di gamberi e il non più esotico pollo all’ananas con prelibatezze di pasta e di pesce.

Se un piatto di ravioli e capesante sfiora i 20 euro, i cannelloni viola di farina di riso al vapore (Cheung Fun) ripieni di wagyu e sedano sono proposti a poco meno di  25 euro, e il controfiletto di Wagyu con glassa di soia al pepe nero di Sarawak e purea di cipolla abbrustolita è in carta a 65 euro (Ba Restaurant). Da Bon Wei invece un piatto di vongole saltate con zenzero è proposto a 24 euro, mentre l’astice saltato piccante a 40 euro. Percorsi degustazioni al Gong Oriental Attitude sono proposti invece a partire da 115 per arrivare a 150 euro. Alla faccia dell’all you can eat.

Con prezzi così elevati viene spontaneo interrogarsi sull’origine delle materie prime. Se il bocciano Zhou pare si sia garantito forniture milanesi o nazionali (carni della macelleria Sirtori, farine italiane, ortofrutta del mercato), è difficile pensare che altri ingredienti alla base della cucina cinese possano essere a chilometro zero. Da dove provengono le pinne di pescecane, le anatre e loro lingue piccanti (servite fredde come fossero bresola)? A questo proposito è da segnalare come le meduse, inserite nell’offerta di alcuni locali della Chinatown cittadina, figurino tra i ‘Novel food’ della legislazione europea (reg.UE 2283/2015), e ad oggi non risultino autorizzate al consumo. Trovandole nel menù, meglio quindi evitarle. E non solo per il fattore gusto-disgusto.

La cucina milanese basata su un modello di cibo tradizionale da tavola e conversazione (risotti, bolliti, cassoeule) è oggi minacciata dallo street food orientale basato su nuove offerte alimentari non così distanti dalla nostra tradizione: ravioli di maiale o verdure e crêpes ripiene di sottili strisce di manzo, uova, porri. Tendenze alimentari cavalcate da locali in diverse zone della città, come nel caso di Angela Haizhen Lei, imprenditrice cinese con quattro ristoranti a Milano dalle differenti fasce di prezzo.

Oggi con l’eliminazione dei modelli culturali del cibo – non solo atto agricolo ma anche frutto di saperi – la ristorazione è dominata dalle chefstar che, da protagonista della tavola, hanno trasformato il cliente a mera comparsa. La cucina come rappresentazione teatrale (vedi il recente film ”The menu”),  portata in scena tra pinzette, forbici (ma la pizza non si tagliava con il coltello?), provette e architettura dell’impiattamento alla quale si è uniformata con grande facilità anche la ristorazione asiatica.

Del resto il successo di un ristorante viene programmato a tavolino e, più che la qualità del cibo e la maestria degli chef, risultano fondamentali il calcolo del food cost, gli addetti stampa e i social media manager. Un esteso gruppo di consulenti-soci indispensabili per fornire visibilità e clientela, che però non riesce a garantire lunga vita ai locali: sempre più spesso non vanno oltre i 5 anni dall’apertura (Fonte: Fipe).

L’uomo, almeno a Milano, è passato dall’essere ‘ciò che mangia’ a ‘ciò che paga’, e anche i cinesi si adeguano.

Marco Ceriani

Food Hero

*Huangjiu  nome del millenario vino giallo cinese popolare nella zona del Jiangnan.

 



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