3 maggio 2022

PIAZZE APERTE E URBANISTICA TATTICA

Un esperimento da "manutenere”


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Tentiamo di fare un bilancio ex post ad una serie di interventi proposi dal Comune di Milano con l’iniziativa Piazze Aperte, ufficialmente introdotta come “Un progetto promosso dal Comune di Milano, realizzato in collaborazione con Bloomberg Associates, National Association of City Transportation Official (NACTO) e Global Designing Cities Initiatives”.

Tutto questo sotto l’ombrello di Milano Urban Center, che “raccoglierà idee, proposte, suggestioni ed osservazioni, sarà luogo di studio, ricerca e di confronto tra le trasformazioni di Milano e quelle di altre città italiane e del mondo e sarà a disposizione della città, con l’intento di coinvolgere le persone e di produrre un processo virtuoso di partecipazione e condivisione e che ha come scopo “quello di osservare la città, e il suo cambiamento, attraverso una serie di conferenze, workshop e dibattiti pubblici e attraverso l’istruzione di concorsi e competizioni pubbliche sulla rigenerazione degli spazi della città””

Nel caso specifico di Milano si è trattato di una serie di iniziative estemporanee, guidate dalla municipalità mi Milano, un po’ “scaltra”, ma perché no, con lo scopo preciso non tanto di ri-acquisire temporaneamente o meno aree pubbliche sottratte nel tempo ai pedoni, piuttosto di conquistarne aree nuove storicamente usate o abusate dagli autoveicoli. 

Sta di fatto che altre municipalità stanno seguendo la stessa strada.

La partecipazione dei residenti del quartiere è stata comunque indispensabile e fondativa: nella pratica è stato determinante usare colori e forme geometriche assolutamente inusuali per l’automobilista “medio”: con grazia e buone maniere, è l’automobilista che è stato implicitamente scoraggiato dal parcheggiare su aree con forme e colori a lui fondamentalmente ignoti (ad iniziare dai cerchi azzurri e gialli). Solo, ritengo, in un altro momento, si è cercato di sperimentare -per l’area locale- un sistema di viabilità che riuscisse a ridurre in numero di veicoli in transito o in sosta, con risultati mediamente buoni, i “desire pathways”, come si vedrà di seguito.

Belle, bellissime parole che catapultano Milano in un contesto planetario, evoluto, ossia quello che agli addetti richiamano i principi dell’urbanistica tattica, definita come introdotta nel 2015 all’interno della mostra “Uneven Growth: Tactical Urbanisms for Expanding Megacities” curata per il MoMa da Pedro Gadanho. Questa consiste nell’adozione di interventi localizzati, realizzati con mezzi leggeri e un ridotto processo burocratico, ma di forte impatto visivo, con lo scopo di innescare, nel loro insieme, in tempi brevi, un miglioramento della vivibilità urbana partendo dalla partecipazione dei propri cittadini. Il tutto connesso, forse in modo inconsapevole alcuni esempi di grandi celeberrimi “desire pathways”.

Vale qui la pena di menzionare, per completezza, la storia non nuova, appunto dei “desire pathways” o “desire lanes”, che appartengono ad un fenomeno consistente e molto diffuso ovunque, dove particolari condizioni climatiche (dalla scarsa precipitazione atmosferica o alla neve abbondante), se non al semplice rilievo geofisico del suolo, hanno finito col creare sentieri  “spontanei” e che illustrano senza ombra di dubbio, come i pedoni effettivamente utilizzino il miglior attraversamento di più o meno distese aree di verde o spazi pubblici (o privati), senza seguire nessuna corrispondenza col disegno ‘imposto’ o suggerito dal pianificatore paesaggista ufficiale turno, o dalle nozioni geometriche determinate “a priori” dalla viabilità automobilistica. Da Brasilia a Central Park.

Nemmeno Milano è esente da questo fenomeno.

È tuttavia utile, nel caso di Milano, fare qualche passo indietro, anzi più di uno: il celeberrimo piano Beruto, e il successivo Pavia-Masera che generano le proprie geometrie formali su uno sviluppo quantitativo, ma che si basa anche e soprattutto da una crescita che fonda le proprie basi su una crescita sorretta dal traffico veicolare, lasciano pochissimo spazio al “verde pubblico” tradizionale o alle consistenti aree pedonali di tipo aulico o rappresentativo di molte città capitali. Non sono piani celebrativi come quello di Poggi per Firenze: lì viene chiesta una crescita logica, razionale e quantitativa, come è forse giusto fosse.  Piazzale Libia, le strade parallele a Corso Buenos Aires, il “Parco Sud”, viale Argonne, sono pochi esempi sparuti, dei tentativi formali. La viabilità pedonale si deve svolgere lungo i viali, radiali e di circonvallazione; un movimento pedonale lineare che si pone in parallelo a quello automobilistico e a quello commerciale. Non sono previsti luoghi “celebrativi”, se non il Castello e il suo giardino, che a loro volta hanno rischiato di essere cancellati allora dal panorama urbano.

Tutto ciò non toglie che non siamo mancati appunto sparuti momenti “felici”, come nel caso di viale Restelli e Piazza Carbonari, ma per motivi forse meramente tecnici. Nel piano Beruto, soprattutto, manca un disegno paesistico per punti connessi fra loro per luoghi, o per schemi articolati: le piazze, e non ne mancano, rimangono grandi spazi lasciati bianchi un po’ forse con l’idea del “non si sa mai”.

Col piano Pavia-Masera, che per molti versi ricalca i principi del precedente, gli spazi pedonali urbani sembrano voler acquistare un peso diverso; si colorano, anche se sembrano voler mantenere la propria funzione precedente, aree puntuali connesse da corridoi lineari, ma sempre interrotti dai grandi viali alberati in modo un po’ goffo, discontinuo. I piani, due proposte appaiono avere tuttavia qualcosa in comune: gli spazi “pedonali” sono il risultato di una cattiva integrazione tra aree di crescita quantitativa e le numerosissime pre-esistenze suburbane. Milano non è il deserto parigino, e una sua espansione si scontra inevitabilmente con strade e strutture che già esistevano da tempo. Alcune di queste digerite, oggi scomparse e demolite, altre che invece esistono e resistono ancora nonostante la griglia imposta dai piani stessi. Ed è proprio qui, in queste “zone di risulta” (come per esempio per i Comuni soppressi) dove i pianificatori di allora preferiscono ignorare la questione creando delle aree che non corrispondono geometricamente alle griglie soprapposte della città nova.

È necessario tuttavia fare una precisazione: prima della seconda guerra mondale, il traffico automobilistico era scarso, lento, e persino le autovetture erano di dimensioni nettamente minori per dimensioni rispetto a oggi. È a partire forse dagli anni Ottanta del secolo scorso quando il traffico veicolare ha iniziato a creare un contrasto nettissimo e inequivocabile tra la struttura pianificata in passato (che la ospita incoraggiandone la presenza) e le abitudini quotidiane dei propri abitanti di oggi. Io appartengo forse all’ultima generazione per la quale era forse ancora compatibile “giocare in strada”. Da allora sempre più automobili, parcheggiate dove un tempo si giocava, vetture sempre più grosse. Siamo stati lentamente spinti vero le quattro mura di casa.

Alcune reazioni a fenomeni precisi hanno tempi particolarmente lunghi. I milanesi ci hanno messo forse un po’ troppo tempo a rispondere, per tutta una serie di motivi sia politici che tecnici, ma anche solo sociali alla questione che Piazze Aperte cerca di mitigare, e questa iniziativa sembra essere una delle prime risposte alla questione. Non ritengo oggi il nodo sia legato alla sola sicurezza stradale dei pedoni, anzi, credo che oggi la città sia forse più sicura di quanto non lo fosse trenta anni fa: molto è stato già fatto. Bisogna spesso ricorrere al confronto tra sicurezza “reale” e quella “percepita”. 

La ragione oggi profonda del conflitto tra autovetture e passanti, risiede soprattutto riguardo l’uso e l’abuso degli spazi pubblici. i cittadini rivendicano giustamente aree urbane libere, dotate di un minimo di equipaggiamento infrastrutturale, possibilmente sicure per i minorenni per coloro che le utilizzano.

Un esperimento interessante, oggi, è utilizzare Google Maps, nel quale le mappe urbane tradizionali riportano date recenti (2022) e quelle a “Street Wiew” che sono invece spesso di epoca meno recente. (2018)

In molti casi si notano due aspetti; che poi sono forse al centro di questo articolo: 

  1. Le mappe meno recenti riportano spesso i “non luoghi”: parcheggi più o meno abusivi o senza disciplina, ad uso e consumo di chiunque
  2. Le mappe più recenti la situazione odierna.

È forse più utile soffermarsi sul secondo aspetto: si ripete – iniziative assolutamente lodevoli. 

Milano ha poi questo “DNA” storico, secondo il quale da un lato si para una enorme capacità progettuale, che finisce spesso poi con lo scontrarsi con le reali -e spesso miserrime- capacità produttive del sistema. Basti pensare al Foro Bonaparte originale. Tuttavia, ripeto tuttavia, queste grande idee “immaginifiche”, finiscono pesto o tardi col lasciare qualche traccia da qualche parte nell’immaginario collettivo cittadino. Io oggi non desidero nemmeno paragonare le intenzioni nobilissime di Antolini, rispetto all’uso che poi è stato fatto alle aree di piazza Castello (sebbene poi a Milano si è visto di ben peggio), ma una traccia ne è rimasta anche se in scala minore. Sebbene il vero Foro Bonaparte non è mai realmente esistito, un Foro Buonparte effettivamente esiste.

Credo appunto il vero valore di questa operazione a basso costo, abbia lanciato un seme, che nella testa di tutti noi rimarrà silente, forse per un po’, ma che rimarrà. Indubbiamente altre zone, altre Piazze avranno più (dipende da dove sorgono, dipende dalla posizione all’interno della città, dipende dalla composizione sociale del quartiere nelle quali si trovano- le variabili sono infinite).

Rimane una unica e reale questione, anzi due: quella della manutenzione nel tempo. Se il Comune commettesse l’ingenuità di pensare che le nuove piazze di mantengano da sole, pecca di un’ingenuità con purtroppo moltissimi precedenti. Non è corretto che il Comune accolli le spese dei propri progetti alle buone intenzioni dei cittadini. Questo è francamente intollerabile.

In più di un paio di casi, taccio per evitare polemiche, le nuove Piazze sono quasi un ricordo di una domenica di festa, altre proseguono ma con l’indispensabile interesse spontaneo dei cittadini che le abitano. I vasi delle piante non si innaffiano da soli, e questo il comune lo sa, o non dovrebbe non far finta di non saperlo benissimo.

Anche la vernice scolora. Allo stesso modo, anche certe panchine, certi tavolini da ping pong la sera si popolano di personaggi che non si preoccupano di lasciar pulito. Questo lo sa bene il Comune, le Zone, i cittadini che puliscono e ripuliscono quotidianamente pur di avere delle aree comune decorose.

Si chiamerebbe “MANUTENZIONE PERIODICA”

Filippo Beltrami Gadola

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