22 marzo 2022

DAL QUARTETTO ALL’OPERA

Due settimane piene di musica


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Nell’ultimo intervento su ArcipelagoMilano, riferendo del concerto del Quartetto di Cremona, osservavo che il ritorno di quei quattro straordinari musicisti in sala Verdi era finalmente “la dimostrazione che la vita culturale della città stava riprendendo a un ritmo pressoché normale”. Era il 9 marzo scorso e da quel giorno ad oggi – son passate solo due settimane – la città sembra aver dato quanto di meglio aveva in serbo e che per due anni non le è stato consentito di esprimere. Un’esplosione di tanta e bella musica, fra cui il vostro cronista si è divincolato come ha potuto con una emozione e un piacere che credeva perduti per sempre. 

Il bottino ha compreso due opere (l’Adriana Lecouvreur di Francesco Cilea e La Dama di Picche di Pëtr Il’ič Čajkovskij), due concerti dell’Orchestra Filarmonica della Scala (musiche russe dirette da Noseda e l’ottava sinfonia di Bruckner diretta da Luisi), e due concerti per la Società del Quartetto al Conservatorio (il pianista Paul Lewis e il quartetto Emerson). Da perderci la testa, e si consideri che l’offerta di musica in città è molto più ampia, con l’Auditorium, i Pomeriggi Musicali, le Serate Musicali, la Società dei Concerti, ecc. tutte in piena stagione e con programmi mediamente di buona qualità.

Il tutto condito con un po’ di suspense iniziale alla Scala, per l’improvviso allontanamento di Valerij Gergiev – giustamente “licenziato” dal Sindaco e dal Sovrintendente perché, grande amico di Putin, non ha voluto prendere le distanze dalla invasione dell’Ucraina – e dal successivo conseguente abbandono di Anna Netrebko, impegnata nelle repliche di Adriana Lecouvreur. Insomma un terremoto, per fortuna senza morti e feriti. Anzi, con la felice scoperta di un giovane talentuosissimo direttore d’orchestra che ha sostituito in corsa l’«amico dello Zar» sul podio nella Dama di Picche

Lo spazio della rubrica non mi permette di raccontare tutti questi eventi, dirò qualcosa di quelli che mi hanno più colpito. Cominciamo dal Quartetto Emerson che ha emozionato il pubblico di Sala Verdi non solo per il sontuoso programma (il Quartetto in do diesis minore opera 131 di Beethoven e La Morte e la Fanciulla di Schubert), ma anche perché è stato annunciato come “concerto d’addio” del quartetto americano, considerato fra i migliori al mondo, che avrebbe deciso di sciogliersi dopo questa ultima tournée. Sarà vero? Non si sa mai, comunque l’impressione di partecipare a un evento che potrebbe entrare nella storia della musica, ha provocato una certa emozione. 

L’esecuzione di uno degli ultimi quartetti di Beethoven, molto amato dal suo stesso autore, è stato uno dei momenti più alti fra quelli che noi ascoltatori di musica dal vivo possiamo aspettarci. Un momento magico, di quelli che ci fanno benedire il fatto di vivere in una città come Milano e di avere una Società del Quartetto capace di catturare tali talenti. Sublime. Se è vero che Schubert, dopo averlo ascoltato, ha detto Dopo questo, cosa ci resta da scrivere?”, noi abbiamo pensato la stessa cosa, “ed ora, cos’altro possiamo ascoltare?

E infatti credo sia stato un errore eseguire Schubert dopo Beethoven e non viceversa. Non solo per precise ragioni cronologiche (l’opera di Schubert è stata scritta un anno prima di quella di Beethoven) o per quanto abbiamo appena detto (chissà se Schubert avrebbe scritto “Der Tod und das Mãdchen” dopo aver ascoltato l’opera 131 di Beethoven!). Ma per qualcosa di più sottile e di meno spiegabile, quel qualcosa per cui lo stesso quartetto Emerson ha finito inconsapevolmente per dare all’opera di Schubert un imprevedibile carattere beethoveniano, passando da un quartetto all’altro come se si trattasse dello stesso autore, e ha trascurato la tenerezza e la dolcezza della scrittura schubertiana a beneficio del potente temperamento del grande Ludwig. Un effetto strano che non so quanto sia stato colto dal pubblico. Peccato che l’entusiasmo per i due capolavori sia scemato al momento del bis quando l’Emerson, evocando la tragedia dell’Ucraina, ha eseguito una Cantata di Bach trascritta per quartetto d’archi che non c’entrava nulla con il programma ed era obiettivamente inascoltabile subito dopo due Quartetti, autentici e potenti. 

Veniamo alla Filarmonica e cioè al concerto diretto da Gianandrea Noseda che prevedeva un programma totalmente russo – con una entrée di Carlo Boccadoro, Tre Danze (2021) in prima assoluta, che con la Russia non avevano nulla a che fare – composto da musiche di Skrjabin e di Borodin, una più affascinante dell’altra. Di Aleksandr Nikolaevič Skrjabin è abbastanza raro ascoltare musiche per orchestra; si ascoltano soprattutto le opere per pianoforte solo (era un ottimo pianista che si distrusse la mano destra per studiare contemporaneamente tutte le 32 sonate di Beethoven!) e dunque è stato interessante ascoltare due opere più complesse, come il Concerto per pianoforte e orchestra in fa diesis minore opera 20 e la sua Quarta Sinfonia opera 54 diventata celebre con il nome di “Poema dell’Estasi”. Il Concerto è un’opera del 1896 quando l’autore aveva appena 24 anni e non era ancora diventato un fanatico teosofo (l’altra sera ha visto al pianoforte il bravo – in Italia poco noto – Bernard Chamayou, francese non ancora quarantenne, che nel bis ha offerto una magnifica Pavane pour une infante défunte di Ravel). Il Poema dell’Estasi, scritto fra il 1905 e il 1908, è il frutto evidente di quelle esoteriche infatuazioni che gli hanno probabilmente rovinato la vita (è morto a 43 anni) ma gli hanno anche consentito di scrivere musiche profondamente ispirate. Molto interessante l’idea della Filarmonica, di illustrare il programma di sala con i dipinti dell’antropologo e filosofo Nikolaj Konstantinovič Roerich, importante esponente della teosofia, coetaneo e connazionale di Skrjabin e a lui molto legato. 

Il concerto “russo” della Filarmonica si è concluso in modo trionfale con l’appassionata interpretazione di Noseda delle “Danze Polovesiane”, tratte dall’opera incompiuta “Il Principe Igor” di Aleksandr Porfir’evič Borodin (1833-1887) . Dovrebbero essere accompagnate, come nell’opera, da un coro, ma vengono molto spesso eseguite – come in questo caso – nella bella versione postuma orchestrata da Nikolaj Rimskij-Korsakov per sola orchestra. Scritte nel 1869, quindi precedenti le musiche di Skrjabin, prendono il nome dalle popolazioni Cumane-Polovezie che nel 1.185 invasero la Rus’ di Kiev e cioè l’attuale Ucraina, contro cui si batté inutilmente il principe Igor’ Svjatoslavič di Novgorod-Severskij: un programma, come si vede, altamente profetico oltre che suggestivo e di grande qualità. Alla fine dell’inappuntabile esecuzione, non si è capito l’insistente, potente e solitario buh! che si è mescolato agli straripanti applausi del pubblico. Che sia stata una protesta “politica”, contro la scelta del programma russo o peggio contro la povera Ucraina celebrata da Borodin? Vattelappesca, fatto sta che è stato molto sgradevole e non degno del nostro massimo teatro e dell’ottimo concerto di Noseda.   

Spendo ancora due parole per domandarmi se, con tutti i meravigliosi frutti della tradizione italiana dell’Ottocento e del primo Novecento, è valsa la pena rispolverare un’opera di Cilea. Musicista calabrese, cresciuto e maturato a Napoli, Cilea ha scritto cinque opere e ne sono sopravvissute solo due: L’Arlesiana e Adriana Lecouvreur. Mi perdonino i melomani che l’hanno applaudita appassionatamente, ma non credo sia un capolavoro da riproporre regolarmente. E’ un materiale più per studiosi, se non altro perché scritta in un periodo di transizione molto complesso (è del 1902), che per il godimento del pubblico viziato dei nostri tempi. 

Meravigliosa, invece, La Dama di Picche di Pëtr Il’ič Čajkovskij che – a parte la brutta regia di Hartmann e le brutte scene di Hintermeier – è stata eseguita in modo esemplare sotto la direzione di Timur Zangiev, un ragazzo di 27 anni (ventisette!) nato e cresciuto nel piccolo paese caucasico dell’Ossezia del nord (uno di quelli recentemente massacrati dai russi insieme alla Georgia) che nei giorni precedenti assisteva/sostituiva Gergiev durante le prove, e che la stessa orchestra ha voluto sul podio quando il divo putiniano si è dovuto eclissare. Ricordate l’esordio di Daniel Harding al festival di Aix-en-Provence, quando Claudio Abbado gli cedette la bacchetta sul podio del Don Giovanni? Aveva anche lui ventisette anni. Dev’essere un’età magica per la direzione d’orchestra!

Paolo Viola

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