22 febbraio 2022

MANI PULITE, TRENT’ANNI DOPO

La crisi della politica era nata prima e non è finita ora.


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Trent’anni dalla rivoluzione per via giudiziaria che ha raso al suolo il sistema politico del nostro paese. Lo spazio di una generazione, un lungo arco di tempo che dovrebbe favorire un approccio meno condizionato dalle emozioni e dagli interessi di parte, approdando ad un giudizio più equilibrato.

Sappiamo però che ancora non è così, che quella vicenda ancora brucia sulla pelle di alcuni e non sempre a torto. Che, come tutte le rivoluzioni anche Mani Pulite sia stata segnata da forzature e storture, questo non si può negare, ma basta ad oscurarne i meriti? Si parva licet, Robespierre annegò la Rivoluzione francese nel sangue e nel terrore, ma non per questo le parole “Libertè, Egalitè e Fraternitè” a cui ispirava i suoi crimini hanno smesso di illuminare la storia.

Tuttavia, se si volesse tracciare un bilancio dell’azione del Pool della Procura di Milano prendendo come riferimento la condizione della politica e della società di oggi, ci si dovrebbe davvero chiedere se ne è valsa la pena. Appare però opinabile, almeno, considerare l’oggi come figlio lineare di quella vicenda: “post hoc, propter hoc”, potrebbe dire qualcuno, dimenticando e volendo far dimenticare quanto nel lontano 1992 il sistema dei partiti fosse ormai precipitato in una crisi gravissima, dove il prezzo della corruzione endemica non era più considerato accettabile dall’opinione pubblica, e dove la scomparsa dell’URSS aveva alienato le complicità geopolitiche interessate a sostenerlo ancora.

La crisi del sistema dei partiti divenne, nella narrazione prevalente, la crisi della politica partitica tout court, imponendo la rappresentazione della casta come principale ostacolo alla crescita civile del paese. Presero così corpo visioni ed iniziative politiche intrise di “nuovi” valori, e se alcuni, poi sconfitti, provarono a promuovere modi di partecipazione attiva (Segni in primis), altri superarono la prova, cambiando a fondo, ed in peggio, lo scenario della forma, del linguaggio e perfino dei corpi della politica.

Naturalmente il pensiero va a Silvio Berlusconi, la cui vittoriosa discesa in campo la dice lunga su larga parte degli umori che avevano sostenuto la lotta contro la casta: un uomo solo al comando, gli altri complici o servi, e soprattutto il messaggio chiave dell’arcitaliano “voi vi fate gli affari vostri ed io mi faccio i miei”. Era il 1994, e già Mani Pulite era sconfitta.

Da allora, la personalizzazione è divenuta il principale tratto distintivo della vita politica italiana, del tutto maggioritaria a destra, ma sempre più invadente anche nel campo democratico, segnato non solo dalla personalità prepotente di Matteo Renzi ma anche, e sempre più, dalla disconnessione sistematica tra rappresentanti e rappresentati, e negli ultimi tempi, dalle intemperanze autoreferenziali dei cosiddetti governatori.  Se nella gran parte delle forze politiche la partecipazione (oddio il Congresso…) è un vago ricordo del passato, bisogna ammettere che lo stesso PD vive la contraddizione paradossale tra il sogno partecipativo delle primarie ed un sistema correntizio di poteri talmente incistato da ricordare il sistema feudale.

Per non dire poi della dura lezione appresa dal Movimento 5 stelle, nato per rivoluzionare lo schema della rappresentanza (uno vale uno) e via via normalizzato fino alla sua definitiva assimilazione alla cultura politica prevalente.

In ogni caso, oggi, la politica si è alllineata anche nel nostro paese ai modelli prevalenti delle democrazie occidentali, dove il partito, quando esiste, è ridotto sempre più a comitato elettorale al servizio di questo o quell’altro leader, e questa convergenza basterebbe per escludere il nesso obbligato e di comodo tra Mani Pulite e deriva populista.

Nella corsa alla delegittimazione della politica e delle istituzioni, in molti hanno guardato alle ultime tristi vicissitudini della magistratura come ad una sorta di revanche, di tardivo riconoscimento delle colpe di un potere, ormai divenuto anch’esso “normale” e quindi assimilato anch’esso alle gravi distorsioni del nostro paese.  Colpevoli loro oggi, innocenti noi allora. Ma se non vi è dubbio che le vicende di Palamara e della loggia Ungheria hanno sollevato un velo sulla sporcizia che ha trovato spazio anche tra i giudici, dedurre dalla crisi di credibilità odierna adeguate motivazioni per delegittimare l’azione di alcuni giudici di trent’anni fa, peraltro quasi mai smentite ai diversi livelli della giurisdizione, appare un’operazione davvero acrobatica.

Per alcuni il rinvio a giudizio di Davigo, cui si imputerebbero comportamenti non lineari nella gestione del segreto d’ufficio sul caso Amara, sarebbe la pistola fumante, la prova regina dei comportamenti ideologicamente e politicamente orientati di allora. Il tentativo di riscrivere la storia, riabilitando così le piccole vicende personali di questo o quello, fanno parte della fisiologia della politica e non ci si deve neppure porre troppa attenzione. De minimis non curat praetor.

Su di un punto però credo si debba essere tutti d’accordo: la crisi del sistema dei partiti di a fine degli anni ’80 non fu, solo, l’esito di una vicenda criminale ma anche e prima di tutto una gravissima emergenza politica, culturale, sociale. Ad ognuno però il suo mestiere: se al giudice tocca di applicare la legge, alla politica tocca di farsi le domande e chiedersi come sia avvenuto che l’intera vita nazionale fosse gravata dalla soma delle tangenti, ed alla società come possa mai affermarsi una politica onesta se l’etica dei comportamenti privati la contraddice senza tollerare, quasi, eccezioni.

Mani Pulite fallì nella finalità di rigenerare la repubblica degli onesti, è vero ma non perché i suoi protagonisti fossero parziali o corrotti, ma perché l’indignazione generale contro i torti degli altri, sbollisce all’istante quando prende in considerazione i propri.

Era vero allora e purtroppo è vero anche oggi.

Giuseppe Ucciero

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