22 febbraio 2022

IL GLICINE LE RUOTE E IL VOLO

La nostra impreparazione di fronte alle disabilità


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Se il livello di civiltà si misura dalla libertà di fare qualsiasi cosa per chi lo voglia, forse serve riflettere sul nostro modello di civiltà. La domanda è: cos’è per noi la Civiltà? Dovremmo spesso farci questa domanda, invece corriamo ogni giorno ad occhi chiusi, privi di sensi antichi.

Mi chiedo cosa pensasse quella mia cara zia non vedente (zia Lidia) quando doveva fermarsi o quando qualcuno si fermava davanti a Lei in silenzio per provare se davvero la cecità fosse il buio assoluto. Lei ti prendeva le mani ti riconosceva, ti diceva: “Sei tu?”.

Ma ciò non basta per spiegare quanto siamo impreparati davanti alle disabilità, quanto la nostra disabilità, se pur negata e per convenzione normalità, sia maggiore di qualsiasi disabilità certificata tale.

Eccoci dunque all’intersezione tra le diverse disabilità, le nostre e quelle non nostre purtroppo declinate ad essere quelle penalizzate. Dunque, il punto d’incontro è un corto circuito che ci sciocca e ci rende incapaci di gestire la nostra immagine allo specchio, storpia, claudicante, bloccata su una sedia dei lillà o appesa all’abilità di un amico cane guida, se non bloccata in un letto cibernetico e ipertecnologico dove un video ci dà la possibilità di interagire con il mondo.

Ricordo quando mia zia si muoveva tranquillamente in casa senza urtare oggetti o fare danni e io mi chiedevo come facesse, tuttavia fin da piccolo, anch’io chiudevo gli occhi e cercavo di memorizzare gli ostacoli per avvicinarmi a Lei. Aveva studiato e suonava il pianoforte, lavorava come chiunque, ascoltava la musica classica e le opere alla radio, ma non poteva andar dove volesse, non perché non vedente, perché limitata dalle nostre disabilità.

Non condanno me stesso per non aver mai imparato l’alfabeto Braille e oggi per essere conforme ai codici, né voi poveri come me, quasi mentalmente paraplegici e inconsapevoli, umanamente cinici e carnefici di chi invece ci perdona, capisce i nostri limiti e, già condannati all’inferno, ci lascia il paradiso dove, avvolti nelle nostre convinzioni e codici, viviamo conviti di essere i migliori. Questa è la civiltà in cui ci riconosciamo, noi società (con la minuscola), questo mondo in cui ogni mattina siamo prede e predatori, ancora bestialmente antropologici a tal punto che ci riconosciamo nel branco, qualsiasi esso sia, dunque tutti contro tutti, avvolti da un vortice di follia aggravata dalla pandemia, che ci anestetizza e ci fa vedere un mondo che non c’è, frutto della nostra proiezione artefatta e probabilmente indispensabile per sopravvivere.

Eccoli là i disabili, gli storpi, i dementi, i paraplegici, i ciechi, i muti, i sordo muti, i mutilati, ma anche i vecchi, le donne incinta, poi eccoci qui noi  imbecilli, convinti e vincenti, sorridenti fino alla stupidità, edonistici, assurdi eppure in giro, con tutto su misura, con ogni comfort possibile, fino ad arrivare a chi protesta perché una porta non si apre completamente, un bagno è scomodo, l’acqua calda arriva con un secondo di troppo, la carta igienica è 5 cm in più rispetto all’allungamento del braccio, il marciapiedi è un po’ alto, le crepe bloccano i tacchi a spillo, il climatizzatore non funziona, l’autobus si è fermato 1 mt più avanti, lo specchio non c’è, ci sono troppe scale, il banco del bar ha un’altezza poco comoda, il vicino è seduto male e non ci dà quello spazio che vorremmo, il campanello è troppo basso, la porta della banca è stretta, e via dicendo. Proviamo a pensare cosa significhi per chi ha una disabilità.

Certo, cambiare oggi quanto c’è da cambiare ha un costo altissimo, e le Giunte e gli Enti come i privati, non trovano fondi per farlo, quelle famose “barriere architettoniche”, ma neanche questo ci viene chiesto da chi vive un disagio, basterebbe un’inversione di tendenza. Ad esempio togliendo le deroghe, basta con le deroghe, quando un intervento va fatto occorre farlo, non si deve ogni volta valutare i costi/benefici convenzionalmente. La Costituzione andrebbe messa come vincolo, punto. La maggior parte di noi ragiona così, alla fine quanti saranno gli utenti disabili? Troveranno qualcuno che gli dia una mano, meglio se si muovono con mezzi attrezzati e non prendono, ad esempio i mezzi pubblici. Li sentiamo (e non percepiamo) come un peso per la società, un costo, un limite. Non parlo del sistema che ci siamo inventati per lenire le colpe, il Terzo Settore (meno male che c’è) anche per sopperire a questo limite che imponiamo loro, il famoso “accompagnatore” con mezzo attrezzato.

Gli Enti dovrebbero iniziare a prevedere fondi ingenti per iniziare a ridurre i disagi, invece si assiste a un avanzamento a marcia ridotta, un’attesa come se dovesse pensarci qualcun’altro. Siamo quello che siamo, ma per favore, cerchiamo di restare con i piedi per terra e iniziamo tutti insieme a pretendere dalle Istituzioni un programma e il completamento di esso, in cui ci sia come obiettivo la riduzione delle barriere architettoniche e non solo quelle di legge o da normativa, andare oltre, verso la coscienza, portando idee e promuovendo iniziative a partire dalle scuole, dalla formazione dei bambini ma anche dalla ristrutturazione infrastrutturale che non vuol dire mettere un ascensore o cose del genere, ad esempio mettendo sulle scale una pedana di mobilità in modo che un bimbo sulla sedia salga da solo con gli altri bimbi. 

Poi ci sono le disabilità pesanti, e questo è un argomento complesso che andrebbe affrontato separatamente. Una disabilità anche lieve, cambia completamente la prospettiva non solo del singolo ma di tutta la Famiglia e se le Istituzioni (ognuna per le proprie responsabilità) restano ai margini del problema, non potremo crescere come Civiltà / Società restando ancorati al concetto di progresso inteso come il raggiungimento di livelli di benessere espressi dal modello di Homo dominante, oggi un concentrato di edonismo, autocelebrazione, potere sull’altro e ricchezza economica. Questa specie di Sapiens siamo Noi normodotati, o meglio con la presunzione di essere tali.

Intanto il glicine sotto casa fiorisce, colorato e profumato, tanto amato dalla zia che lo sentiva respirare. Io non l’ho mai visto come lo vedeva lei pur avendoci provato. Marco invece, sulla sedia, un giorno fece un volo dal quale non atterrò mai, l’amavo per la sua sensibilità. Quale mondo vediamo? Soprattutto quanto ancora dovranno perdonare le nostre disabilità.

Gianluca Gennai

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