8 febbraio 2022

E’ POSSIBILE TORNARE AD UN’URBANISTICA IN FUNZIONE ANTICLICA ALLE DINAMICHE FINANZIARIE?

La speculazione finanziaria e il "vuoto verticale"



brenna (1)

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Riccardo Staglianò sul Venerdì di Repubblica del 15 gennaio dello scorso anno intitolava Vuoto Verticale l’icastico racconto di una sua visita dentro la Torre Allianz di Citylife durante il primo lock down, nella quale erano ammesse solo 22 persone con 2.400 mq disponibili a testa, tanto da far risuonare come in uno jodel le voci dei pochi presenti, ma osservando che lo svuotamento era iniziato ben prima, dal 2016, facendo ruotare 600 persone su 300 scrivanie, sino ad avere 2.400 dipendenti in smartworking su un totale di 4.500.

Anche a Porta Nuova nella sede di Unicredit un contapersone avvisava che il 97% delle postazioni di lavoro risultavano non occupate e gli esperti del settore finanziario immobiliare coinvolti in queste realizzazioni prevedono una riduzione permanente dell’affollamento negli edifici terziari con il ritorno dalle soluzioni open-space a quelle con postazioni separate.

Altrettanto faceva rilevare Federica Venni su Repubblica/Milano del 16 febbraio di quest’anno valutando che il 90% dei dipendenti delle aziende di Citylife e Porta Nuova erano stati messi in smartworking da casa e che la tendenza era comunque di carattere stabile e non solo dovuta alla pandemia.

Come si spiega che edifici in cui il costo della rendita fondiaria è stata il doppio di quella corrente nelle consuete operazioni immobiliari di piccola-media dimensione (1.800-2.000 €/mq di spazio commercialmente vendibile pagati a Citylife-Porta Nuova contro i 900-1.000 €/mq usualmente correnti a Milano) possano finire così sottoutilizzati?

Il fatto è che chi ha deciso di investire su queste operazioni di grande estensione fisica e dimensione finanziaria non sono gli operatori immobiliari puri, i quali sono costretti per finanziarsi a ricorrere all’indebitamento con banche o fondi di investimento di grande dimensione e dover rientrare abbastanza rapidamente dal debito vendendo il prodotto immobiliare realizzato (salvo dover fallire e vedersi pignorare gli immobili), ma direttamente banche e altri enti finanziari, per i quali l’investimento viene messo a bilancio sul lungo periodo, con la possibilità di scommesse speculative di lungo periodo (pago il doppio l’area edificabile tanto fra 15-20 i profitti saranno più che raddoppiati), che anche quando non vanno a buon fine non mettono in discussione la stabilità finanziaria dell’investitore.

Ciò è stato reso possibile dalla messa in uso (dopo quasi due decenni dalla loro istituzione in leggi disorganiche degli anni ’90) di strumenti urbanistici in deroga alle norme di Piano Urbanistico generale (PGT o PRG che sia) che – per quanto accattivantemente denominati in modo innovativo (Rigenerazione Urbana, Piani Integrati di Intervento, Accordi di Programma, ecc.) ripercorrono le modalità delle “convenzioni di diritto privato” in assenza o in deroga ai PRG ampiamente praticate dai Comuni negli anni ’50-’60 (quelli noti come “le mani sulla città”, dal titolo del bel film di Rosi sul “sacco di Napoli”), in cui a far decidere i Comuni su dove e quanto lasciar costruire erano appunto le proposte dei pur molto numerosi realizzatori edilizio-immobiliari in base alle disponibilità economiche proprie o più spesso “a debito” finanziario, con la differenza che oggi le assai maggiori disponibilità economiche sono direttamente quelle degli investitori finanziari, che come ho osservato sopra si estendono su dimensioni fisiche e durate temporali ben maggiori di quelle un tempo.

Il problema dell’interesse pubblico a “quando lasciar costruire” (al di là dell’altro problema topico dell’urbanistica del “quanto, come e con quanti spazi pubblici”) era già  presente (sia pure indirettamente) nella formulazione originaria della Legge Urbanistica del 1942, la quale prevedeva che i privati potessero presentare  i propri “piani di lottizzazione” (i quali in questo modo assumevano il ruolo di poco più che assestamenti catastali delle proprietà fondiarie) solo dopo che il Comune avesse approvato non solo il Piano Regolatore Generale, ma anche un Piano Attuativo di iniziativa pubblica, senza il quale l’edificazione da parte dell’iniziativa privata non era possibile.

La questione venne ribaltata con la cosiddetta Legge Ponte 765/67 che impose sì ai Comuni l’obbligo di redigere un Piano Regolatore Generale prima di poter far stipulare ai privati convenzioni edificatorie attuative, ma dopodiché tutte le aree che risultavano indicate come edificabili potevano esserlo contemporaneamente e a discrezione di tempo delle proprietà fondiarie, autorizzate a presentare piani di lottizzazione direttamente conformativi.

Il problema della disordinata attuazione temporale delle previsioni dei PRG  (e non solo temporale: i piani di lottizzazione dei privati erano per lo più rispettosi del frazionamento fondiario preesistente più che non di una ordinata forma urbana) con le conseguenti difficoltà finanziarie dei Comuni del dover inseguire coi servizi pubblici tendenze edificatorie dettate dalle opportunità di redditività fondiaria privata venne così nuovamente affrontato nella cosiddetta Legge Bucalossi n. 10/77 (non a caso a opera di un ministro dei LL. PP. ex sindaco di Milano) che introdusse uno strumento che ebbe purtroppo breve durata, proprio perché inviso alla “libertà economico-imprenditiva” dei privati: il Programma Pluriennale di Attuazione  (PPA) di durata da tra a cinque anni.

Le aree indicate come edificabili dal PRG non potevano essere edificate a discrezione di tempo delle opportunità ed interessi economico-finanziario-imprenditive di proprietà fondiarie e realizzatori immobiliari, ma per fasi organiche dello sviluppo urbano in periodi di tre-cinque anni.

Vi assicuro che per me –  che ero alle prime armi come assessore all’urbanistica in un piccolo comune dell’hinterland nord-milanese dove tra i pochi aveva fatto approvare il Programma Pluriennale di Attuazione – tentare di far capire a proprietari fondiari e/o realizzatori immobiliari che la loro area era sì edificabile in PRG, ma non in quel triennio-quinquennio, bensì in uno futuro fu una fatica altrettanto improba e priva di risultati quanto quella mitica di Sisifo.

E infatti ben presto gli effetti del Programma Pluriennale di Attuazione vennero prima rinviati nel tempo e poi abrogati definitivamente, con buona pace di assessori più compiacenti e di aspiranti redditieri immobiliari scalpitanti.

Oggi, come ho cercato di spiegare all’inizio, il problema dell’interesse pubblico ad indirizzare e governare i tempi e le funzioni dell’uso edificatorio delle trasformazioni urbane torna prepotentemente in gioco di fronte sia ai mutamenti immediati indotti dalla pandemia sia alle tendenze di più lungo periodo, che non possono essere subordinate a quelle ormai di altrettanto lungo periodo delle strategie finanziarie.

Basti pensare che Citylife col suo spropositato peso insediativo (indice edificatorio 1,15 mq/mq più del triplo di quello dell’attuale PGT di 0,35 mq/mq !) prevedeva un tempo di attuazione di 10 anni – dal 2005 al 2015 – al termine del quale sarebbe stato possibile ridiscutere quanto non ancora realizzato e invece venne prorogato tal quale dall’allora assessore De Cesaris sino al 2023 e nuovamente prorogato tal quale dall’assessore Maran sino al 2028: più di vent’anni lasciati a disposizione dei privati per decidere con quali proprie convenienze finanziarie dare seguito a quanto fatto fortunosamente arraffare a Fondazione Fiera da parte un assessore all’urbanistica come Lupi, troppo compiacente verso i propri sodali di CL Roth e Formigoni per rispondere loro che i debiti imprevisti accumulati nella costruzione di Nuova Fiera a Rho-Pero per il bene di Milano non si potevano risolvere scaricando 1 milione di metri cubi sul recinto della vecchia Fiera, persino quando poi Fiera ottenne il doppio dei 250 milioni che le sarebbero bastati (e quindi quando la volumetria concessa avrebbe potuto essere dimezzata !).

Altrettanto rischia di accadere con la vicenda di San Siro dove il problema contingente del nuovo stadio nasconde l’aspirazione ad ottenere cospicui diritti edificatori accessori che potrebbero essere rivenduti, ulteriormente commerciati e posti in attuazione solo a seconda delle fluttuanti opportunità dei flussi finanziari e delle contingenze dei mercati.

Con un PGT che ragiona solo sull’orizzonte quinquennale e trasformazioni urbane approvate “fuori sacco”, ma con tempi di attuazione che si prolungano per oltre un ventennio, solo l’egolatria immobiliaristico-finanziaria del vero “dominus” dell’urbanistica milanese, Manfredi Catella, può pensare di inneggiare a quel Modello Milano basato sulla continuità tra le scelte urbanistico-sociali di amministrazioni comunali succedutesi con apparente diverso orientamento politico-amministrativo come un orizzonte di neoliberismo urbanistico suddito della finanza, ma benefico per il destino della nostra città..

Sergio Brenna

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  1. Giancarlo RossiFinalmente leggo della perversa influenza che i vertici di CL hanno avuto nello sviluppo della città! Ai tempi molti ci rammaricammo che non vincesse il progetto di Renzo Piano nel concorso per l'area della vecchia Fiera, e sospettammo loschi conflitti d'interesse tra la cordata vincente e gli organi giudicanti, tanto immenso era il divario tra l'altissima qualità formale dell'unico grattacielo, circondato da bosco, e l'accozzaglia di stili diversi, inno all'egolatria solipsistica degli archistar, oltre che alla più smaccata rendita finanziaria. D'altronde un intervento che si chiama ridicolmente City life, come sempre càpita quando si abusa del gergo americano (jobs act ecc.) nasconde non solo il servilismo verso i poteri prepotenti, ma anche la volontà d'ingannare il cittadino.
    11 febbraio 2022 • 18:40Rispondi
  2. Pietro VismaraNo, il PPA no! Soprattutto come lo descrive l'autore dell'articolo: hai diritto a costruire, ma devi aspettare gli "arcana imperii" dell'ente pubblico. Come forma di coordinamento degli interventi pubblici e privati, riesco ancora a capirlo, ma così... Confesso di capire lo sconcerto dei proprietari. Esiste anche un limite alla nostalgia dell'urbanistica del bel tempo che fu, vediamo di non superarlo
    18 febbraio 2022 • 16:27Rispondi
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