23 novembre 2021

ARRANGIAMENTI O ORCHESTRAZIONI?

Un'esecuzione miracolosa


viola (2)

Avevo già avuto modo in altre occasioni di raccontare il nuovo corso di Milano Classica alla Palazzina Liberty. Questa orchestra da camera, nata originariamente fra i naufraghi della gloriosa compagine dell’Angelicum (chi ha qualche anno sulle spalle ricorderà i lunedì nell’auditorium dei frati di via Moscova!), poi rinata e cresciuta nella sede che fu il teatro alternativo di Dario Fo e Franca Rame, un paio d’anni fa ha cambiato pelle e si è inventata il format The Classical Experience che fa rabbrividire i benpensanti e impazzire molti ragazzi e qualche radical chic.

Immaginate una platea costituita da graziosi tavolini e sedie da bar, rigorosamente liberty, dove vengono serviti succulenti aperitivi prima, durante e dopo le esecuzioni musicali, i musicisti al centro, senza pedana, luci da night club, comprese nebbia artificiale e musica da discoteca, soffusa ma non troppo, prima e dopo il concerto. Non è una cosa malvagia, può anche funzionare, ma è inevitabile che i benpensanti restino un po’ perplessi.

Perplessità che si sciolgono immediatamente quando, con un coup de théâtre, scomparsa la nebbia, spenti gli altoparlanti, conclusa l’ineluttabile introduzione di uno spiritoso presentatore, compaiono i volti sorridenti dei musicisti che prendono posto nel mezzo della sala, fra gli spettatori/avventori, e si fa quel magico silenzio che precede sempre la musica, quella vera. 

I programmi di queste serate sono, nel rispetto del format, all’insegna delle contaminazioni le più varie, di autori e culture diverse, dei mood di particolari epoche o nazioni, di trascrizioni da un organico all’altro, di confronti sconcertanti, parodie, ecc. Sabato scorso (i concerti si tengono regolarmente ogni sabato) il tema era “America, dalla Grande Mela ai monti dell’Alabama” e dunque abbiamo sentito uno Spiritual rielaborato per solo quartetto, una fantasia sul “Porgy and Bess” di George Gershwin, un brano di John Newton cantato a cappella da tutti i musicisti (!), un altro per orchestra di Ervin T. Rouse, ma anche il celebre “Adagio per archi” di Samuel Barber. Non dirò degli autori che non conosco abbastanza per valutare i risultati delle trascrizioni ed arrangiamenti delle loro opere, ma di Gershwin non posso fare a meno di rilevare che, al di là della bravura degli interpreti e dell’arrangiatrice Claudia Brancaccio, non ho apprezzato le melodie e le armonie di quell’opera meravigliosa affidate a un complesso di soli archi, senza le essenziali voci dei legni e degli ottoni. Pazienza.

Il motivo che mi spinge a raccontare quella serata è però un altro, e si riferisce alla presenza centrale nel programma del Quartetto per archi n. 12 op. 96 di Antonín Dvořák, detto per l’appunto “Quartetto Americano”, arrangiato (ma in questo caso il termine mi sembra inappropriato) per orchestra d’archi da Cosimo Carovani. Non mi è sembrato “arrangiato” ma piuttosto “orchestrato” nel senso più alto della parola. Non avrei mai immaginato che potesse essere di gran lunga più ricco, espressivo ed intenso dell’originale. Il lavoro di Carovani è stato delicato, rispettoso, prudente, volto solo ad esprimere tutto quanto già si trova dentro l’originale di Dvořák, come hanno fatto Busoni con Bach o Ravel con Mussorgskij. Eseguito da 5 violini primi, 4 secondi, 3 viole, 2 violoncelli e 1 contrabbasso, il Quartetto assume una potenza espressiva e uno spessore che coinvolgono l’ascoltatore togliendogli il fiato. Una grande emozione. Peccato per tutti quegli applausi alla fine di ogni movimento (tipici di un pubblico poco avvezzo alla grande musica) che interrompevano il filo conduttore e la compattezza dell’opera.

Ma andiamo con ordine. Suonava l’Orchestra d’archi Milano Classica insieme al Quartetto Indaco – definito come “prime parti e concertatori” – costituito come è noto da Eleonora Matsuno, magnifico primo violino, dagli altrettanto bravi Ida Di Vita (secondo violino), Jamiang Santi (viola) e appunto da Cosimo Carovani (violoncello). Pochi giorni prima avevamo ascoltato un magnifico concerto di questo quartetto, all’Accademia Europea di Musica di Erba, con un Quartettsatz di Schubert a dir poco entusiasmante, travolgente, pieno di autentica passione. I quattro quartettisti sono anche le prime parti della Milano Classica, e sono arrivati in orchestra già costituiti in quell’organico, quattordici anni fa, patrocinati dalla scuola di Fiesole. Carovani vi arriva un po’ dopo ma si integra totalmente nel gruppo e succede che la fusione dei quattro contagia l’intera orchestra e ne fa un organismo tanto affiatato da non far sentire l’assenza di una direzione. La grande capacità di ascolto reciproco, insieme alla profonda esperienza della Matsuno, prima inter pares, fanno sì che l’orchestra riesca a suonare come un quartetto allargato ed amplificato.

viola intern (1)

Molto curioso che in un ambiente all’apparenza così frivolo possa avvenire il miracolo di una esecuzione di grande e sorprendente qualità. Merito di tutti, del Quartetto, dell’Orchestra e credo anche della passione con la quale tutto è curato da Maria Candida Morosini, una delle note “signore della musica” della Milano bene, presidente dell’Associazione “Amici di Milano Classica”, alla quale proprio in questi giorni è stato meritatamente assegnato l’Ambrogino d’Oro per la attiva e fattiva presenza nella vita culturale della città. Complimenti Maria Candida!

Paolo Viola

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